Semplicemente Democratici
La sequenza dei provvedimenti legislativi adottati nell’ultima settimana di attività parlamentare, prima delle ferie, è un esempio desolante della gestione berlusconian-tremontiana dell’economia, dei corposi interessi che i due tutelano e dell’enorme potere che hanno concentrato nelle loro mani usando in maniera spregiudicata, combinandole, le leve del governo e le risorse private del Premier. Sono una dimostrazione del becero populismo leghista a cui il PdL si è arreso e un caso emblematico dell’arroganza pasticciona con cui il governo fà e disfa le leggi, in spregio agli equilibri costituzionali. Basta rileggere il domenicale di Eugenio Scalfari del 2 agosto o la dichiarazione di voto di Dario Franceschini alla Camera per ricordare a che punto eravamo arrivati prima delle vacanze e di cosa stiamo parlando.
Scalfari si chiedeva, in conclusione del suo editoriale, come si possano spiegare, pur a fronte di una sostanziale afasia delle misure contro la crisi, il deficit in crescita e uno sforamento della spesa per 35 miliardi di euro. Presumo che la risposta risieda in due ben note componenti della politica tremontiana che noi del PD, alla Camera e al Senato, abbiamo criticato aspramente sin dall’inizio della legislatura: coperture fittizie mediante tagli lineari (in quanto irrazionali, non del tutto mantenibili) alle pubbliche amministrazioni; favori distribuiti discrezionalmente a capitani d’impresa per niente coraggiosi, banche e giornali, che il duo Berlusconi-Tremonti tiene così sotto scacco. Se a questo si sommano gli interrogativi sull’inquietante vita privata del premier, le delizie estive propinateci dai leader leghisti sui dialetti a scuola e sulle gabbie salariali, i drammi che stanno generando le leggi volute per fini elettorali contro gli immigrati, gli attacchi violenti e le intimidazioni contro quel poco di stampa libera che è rimasta, abbiamo un quadro della deriva verso cui il governo di centrodestra sta portando il paese.
Tra settembre e ottobre molti italiani perbene che l’avevano votato si cominceranno a chiedere qual è l’alternativa possibile a Berlusconi. Al PD, attraverso la fase congressuale che sta entrando nel vivo, tocca l’onere di dimostrare che costituisce una alternativa credibile. Che è un canale effettivo per partecipare, che ha idee e persone adeguate per tornare al governo, ed è in condizione di impedire che il centrosinistra rifaccia la sequenza di drammatici errori commessi tra il 2005 e il 2008 dovuti in larga misura a frammentazione estrema, conflittualità permanente, scarsa capacità di elaborare una strategia compiuta e comunicare le proprie realizzazioni. Errori poi in parte reiterati, all’interno del PD, nell’ultimo anno, quando è stato sprecato il cospicuo patrimonio di fiducia faticosamente ricostruito, anche grazie a Walter Veltroni, tra le primarie del 2007 e la campagna elettorale del 2008.
Poche settimane dopo l’elezione di Veltroni a segretario, il 14 ottobre del 2007, con il voto di più di tre milioni di cittadini, sono iniziate le manovre sotterranee, temporaneamente sopite solo nel corso della campagna elettorale del 2008, per poi riprendere subito dopo le politiche. Si sono rimesse in moto vecchie ruggini degli anni settanta, l’indisponibilità di D’Alema ad essere per una volta in seconda fila, le diffidenze tra ex-Ds ed ex-Margherita e le strutture correntizie di “nuovo conio” à la RED. Nel momento di maggiore forza del centrodestra, mentre Berlusconi poteva vantare un discreto consenso e usare un fuoco mediatico senza pari per oscurare l’opposizione e metterla in cattiva luce (anche presso il suo stesso elettorato), è iniziato all’interno del PD il più classico tiro al piccione contro il Segretario e qualsiasi sua iniziativa. E Veltroni di errori ne ha certamente commessi. Non ho difficoltà ad ammettere di averli condivisi. Ad esempio, all’inizio della legislatura, è stato dato troppo credito, per amor di patria, alla possibilità di stabilire uno stile di rapporti istituzionali tra maggioranza ed opposizione simile a quelli di una normale democrazia parlamentare. Ma se Veltroni di errori ne ha commessi, è stato l’unico fino ad oggi a prendersene (oltre misura) la responsabilità e trarne le conseguenze.
Cosa fatta, capo ha. Il Congresso o serve a cambiare registro o sarà inutile. Se non porterà chiarezza nella linea politica, rispetto delle regole interne, un reale superamento delle divisioni del passato, avremo ancora sprecato tempo, regalato a Berlusconi un’altra boccata di ossigeno e mancato alle nostre responsabilità verso il Paese.
Il PD oggi deve riprendere la strada (giusta) che si era intravista durante la campagna elettorale del 2008 confermando alla segreteria Dario Franceschini, il quale ha già dimostrato di poter sfidare il centrodestra su un terreno diverso da quello della politica politicante: su temi concreti, che la gente normale capisce, con freschezza e con determinazione. Intorno a Franceschini, si può riprendere il cammino per costruire un partito aperto, plurale, capace di parlare ad una larga fascia dell’elettorato. Credo che Franceschini debba essere sostenuto ma anche sfidato a promuovere un significativo cambio di passo. Perché per superare davvero il quindicennio berlusconiano dovremo essere pronti a proporre un nuova generazione di militanti e di leader, donne e uomini: popolari, competenti, ineccepibili sul piano morale, non attaccati alle poltrone e non ricattabili da gruppi di interesse, capaci di costruire una identità e un pensiero comune che vada oltre le appartenenze ideologiche del passato. Avremo bisogno di una organizzazione moderna, capace di comunicare, di intercettare le concrete disponibilità di partecipazione dei giovani e delle tante persone che dopo aver guardato con fiducia all’Ulivo e poi al PD si sono allontanate.
Perciò ho aderito alla rete Semplicemente Democratici promossa da Rita Borsellino, Francesca Barracciu, David Sassoli, Debora Serracchiani e, d’accordo con loro, ne ho assunto, insieme con Simona Caselli, il coordinamento in Emilia-Romagna.
Le ragioni del nostro sostegno alla candidatura di Dario Franceschini per la segreteria nazionale e di Mariangela Bastico per la segreteria regionale sono espresse in un documento scaricabile cliccando qui. Chi ne condivide il senso, è inviato vivamente ad aderire e a diffonderlo. Chi indende aderire può farlo attraverso il sito nazionale o rispondendo a questa email.
Le ragioni che, in positivo, ci spingono a sostenere Franceschini e Bastico sono indicate nel documento. Credo sia qui giusto anche dire perché, personalmente, non credo adeguate le proposte alternative. Credo innanzitutto che la vera scelta per la segreteria nazionale sia tra Franceschini e Bersani. So ovviamente che c’è un terzo candidato. Ho grande rispetto per lui e per chi lo sostiene. Abbiamo molte opinioni in comune, una medesima visione del PD, la stessa devozione laica per il merito, il talento, il rispetto delle regole. Ma credo sia onesto riconoscere che Marino: a) non ha realistiche chances di vincere; b) non ha un seguito sufficiente – se anche vincesse – per guidare il partito; c) non ha esperienza politica sufficiente – se anche vincesse – per proporsi come perno di una coalizione in grado di governare l’Italia. E per il 25 ottobre non è stato indetto un referendum sulla laicità o una gara a chi costruisce la minoranza più larga. Il 25 ottobre si scelgono una persona e un indirizzo politico intorno a cui guidare il partito e costruire una alternativa di governo per l’Italia.
Su molti punti le posizioni di Franceschini e Bersani sono oggi simili, soprattutto sui temi programmatici. Le differenze principali riguardano il modello di partito e le alleanze. Anche su qesti temi le posizioni sono diventate più simili che in passato perché Bersani ha apparentemente modificato le sue su punti cruciali. Un caso di flip-flopping, come direbbero gli americani, di andamento a zig-zag, che negli Stati Uniti (e non solo lì) genera qualche perplessità. In sintonia con D’Alema, o almeno con il D’Alema dell’autunno 2008, quando entrambi hanno deciso di far leva sull’orgoglio post-diessino per sfidare Veltroni, Bersani aveva detto d’essere a favore di un partito «socialdemocratico», si era ostentatamente messo al fianco della Cgil in un momento critico per l’unità del sindacato, si era detto a favore di un partito in cui la sovranità appartiene esclusivamente agli iscritti. Che il flip-flopping ci sia stato lo testimonia inequivocabilmente il fatto che uno dei suoi attuali alleati, Enrico Letta, che anche su contratti e sindacato aveva preso posizioni opposte, nell’intervista in cui assicura il suo appoggio gli chiede di «abbandonare la socialdemocrazia». Nel discorso di presentazione della candidatura, Bersani in parte cambia approccio e definisce il suo PD come il «partito di una sinistra liberale e democratica». Nella mozione la definizione cambia ancora in: «un partito dell’uguaglianza secondo l’ispirazione del cattolicesimo democratico e della sinistra democratica e liberale». Dopo la cura Letta/Bindi, siamo così tornati, come nel gioco dell’oca, ad un PD frutto della giustapposizione tra democratici di sinistra e cattolici democratici (due componenti che però, in termini reali, nell’area pro-Bersani sono in rapporto di 90 a 10).
Bersani ha dichiarato in interviste pubbliche che «il segretario nazionale del partito lo devono eleggere gli iscritti» e ha detto di avere sempre considerato sbagliato il metodo previsto dallo statuto e già usato il 14 ottobre 2007. Anche su questo c’è stata una apparente inversione ad U. La mozione Bersani ha riabilitato le “primarie” per il segretario, ma con una postilla equivoca, in base alla quale «servono nuove regole». Le nuove regole contemplano innanzitutto la registrazione preventiva di chi vuole votare. Una soluzione che non risolve affatto il rischio (a dire il vero inesistente, fino a che votano milioni di persone) di inquinamento da parte di altre forze politiche e avrebbe un effetto del tutto contrario a quello dichiarato. È ovvio infatti che la registrazione preventiva non costituirebbe una barriera per i capibastone (di qualsiasi tipo) e per i loro seguaci, proprio perché organizzati, mentre dissuaderebbe tante persone normali e disinteressate. Se c’è lobbbligo di pre-registrarsi i seguaci dei capibastone verranno ordinatamente mandati a farlo a tempo debito. Le persone libere rischiano di perdere l’occasione o si arrenderanno di fronte alla seconda porta del circolo chiusa.
Quanto alle primarie per i sindaci, i presidenti di provincia e di regione, si dà invece ad intendere che d’ora in poi dovranno essere «di coalizione» ma, attenzione, si dice anche che il PD «partecipa alle primarie di coalizione con un proprio rappresentante scelto da iscritti e organismi dirigenti». Che cosa vorrà dire che a decidere sono gli scritti “e” gli organismi dirigenti? L’unica interpretazione plausibile è che gli iscritti vengono “consultati” e poi decidono gli organismi dirigenti. In pratica, con le regole proposte da Bersani le primarie avrebbero, almeno nelle intenzioni dei proponenti, un esito scontato: «gli organismi dirigenti» scelgono il candidato del PD, che poi compete con i candidati dai partiti minori, a meno che gli organismi dirigenti non facciano accordi diversi con uno o più partiti della coalizione. Si dirà che questo è il modello delle “Primarie per Prodi” del 2005, elezioni meramente confermative che furono un momento comunque assai positivo. Appunto, ma moltiplicatele per tutti i sindaci, applicatele a persone non sempre così popolari come Prodi e capirete che bella esaltante prova di democrazia ne viene fuori. Per intendersi, con questa regola Matteo Renzi a Firenze o Roberto Balzani a Forlì non sarebbero mai stati candidati, a meno che non avessero deciso di presentarsi come indipendenti, al rischio di essere radiati dal partito. A Firenze, a Forlì e in tante altre città, con questa regola, alle primarie di coalizione ci sarebbe andato il candidato unico del PD scelto dai gruppi dirigenti tra uno di quelli che le primarie nel 2009 le hanno perse! Nella mozione Bersani si mette invece molta enfasi sulle primarie per i Parlamentari, proprio nei casi in cui sarebbe praticamente impossibile gestirle in modo ragionevole ed equo. Perché è vero che con le liste bloccate sarebbero sacrosante. Ma quando si devono scegliere trenta candidati in una intera regione, stabilendo l’ordine di lista, come si procede? Come si fa a garantire anche l’equilibrio di genere e il pluralismo interno? Questo non viene specificato. Inoltre, la mozione Bersani non dice che la soluzione sta nel ritorno al collegio uninominale. Perché? Il collegio uninominale non è il modello di riferimento dell’Ulivo? O vogliamo tornare ad un sistema proporzionale stile prima repubblica per far contento Casini?
Sulle alleanze ci sono differenze meno nette di quanto si tenda a raccontare. Siamo tutti favorevoli a coalizioni basate sui programmi. Ma la linea D’Alema-Bersani è a mio avviso troppo cedevole nei confronti dell’Udc sul piano politico ed istituzionale, troppo preoccupata di fare coalizioni larghe, a prescindere dalla successiva tenuta dei governi. Come se la caduta del primo governo Prodi (1998) e l’esperienza del 2006-2008 non ci avesse insegnato niente. Si tratta peraltro di una posizione contraddittoria. Perché da un lato si insiste sulla necessità di dare una identità netta al PD, ma poi si è disposti a fare coalizioni al ribasso con l’Udc e la sinistra radicale. Come dire: dobbiamo fare promesse chiare ai “nostri” elettori … sapendo però che poi non potremo realizzarle perché ci prepariamo a subire il veto insuperabile ora della sinistra radicale ora dell’Udc e magari a concedere a Casini la Presidenza del Consiglio! Temo insomma che la strategia di fondo di Bersani per battere il centrodestra sia una copia aggiornata ed estesa della coalizione costruita da D’Alema nel 1998 sulle ceneri dell’Ulivo. Cosa poi c’entri il “ritorno all’Ulivo” con questa strategia non si capisce.
La mozione Bersani, infine, si apre con una analisi a dir poco squilibrata dei fattori che hanno indebolito il PD dalle elezioni del 2008 ad oggi. Ci si chiede giustamente: «perché il Pd ha deluso le aspettative che aveva suscitato, perdendo voti, invece di allargare i consensi, in tutte le direzioni?». Segue la risposta (i corsivi in parentesi quadra sono ovviamente miei commenti): «È successo perché la vocazione maggioritaria si è ridotta alla scorciatoia del nuovismo politico, mentre avrebbe richiesto un paziente lavoro di radicamento rivolgendosi con concretezza ai ceti popolari, alle categorie produttive e ai veri innovatori [ma chi sarebbero poi questi “veri innovatori” non si sa]. È successo perché invece di fondare un partito mai visto nella storia italiana, si è preferita spesso la suggestione mediatica alla definizione di una riconoscibile identità politica [ma sfido chiunque a dire quali contenuti della mozione Bersani delineino questa riconoscibile identità segnando uno scarto significativo rispetto a quanto si detto e fatto nei mesi scorsi]. È successo soprattutto perché, dopo aver invocato la partecipazione popolare alle Primarie ed aver ottenuto la risposta formidabile di quasi quattro milioni di cittadini [quella partecipazione a cui Bersani è sempre stato contrario e che D’Alema ha recentemente definito una «invasione di campo della società civile»], non si è riusciti a costruire una organizzazione plurale e aperta in grado di coinvolgerli.»
È ben strano che i sostenitori della mozione Bersani critichino lo scarso radicamento organizzativo del PD se si considera che hanno espresso alcuni degli uomini chiave dell’organizzazione al livello nazionale ed hanno guidato il partito in parecchie regioni, a cominciare dall’Emilia-Romagna, che dispone certamente di più risorse di qualsiasi altra struttura territoriale. Come mai (anche) in Emilia-Romagna «non si è riusciti a coinvolgere il popolo delle primarie»? A leggere la mozione Bersani, sembrerebbe che tutti i problemi siano venuti dal “nuovismo” di Veltroni. Ne siamo proprio sicuri? Siamo sicuri che la soluzione migliore sia trovare un capro espiatorio, riesumare l’orgoglio identitario diessino e tornare indietro?