2018. Dove si decide chi vince
Ho elaborato stime sulla prevedibile distribuzione dei seggi, in caso gli elettori votassero come i sondaggi dicono, ormai abbastanza stabilmente, da alcune settimane. I risultati di questa analisi sono stati pubblicati in forma estesa da La Repubblica (cartaceo e online). Ne ho parlato anche a Tagada (primi dieci minuti di questa puntata). Qui sotto si spiega come ho fatto. Le mappe segnalano i collegi più o meno sicuri per i tre principali competitori (centrodestra, centrosinistra, 5 Stelle) e quelli in bilico, in cui si profilano sfide a due o a tre. Le tabelle riportano il presumibile risultato aggregato e la ripartizione dei seggi proporzionali tra le circoscrizioni. Sempre che i sondaggi abbbiano ragione, che la campagna non sposti niente e che il mio modello di simulazione sia perfetto! Ovviamente, nessuna delle tre cose è certa.
Le simulazioni qui pubblicate non derivano da un singolo sondaggio ma sono il prodotto di una mia personale elaborazione, svolta sulla base di una molteplicità di fonti, tra cui anche i dati di due rilevazioni campionarie cortesemente messe a mia disposizione da SWG, da cui ho ricavato una “matrice dei flussi”, cioè degli spostamenti dell’elettorato da un partito all’altro, differenziati per macro-aree, che ho applicato ai risultati elettorali del 2013 in ciascun collegio del Rosatellum.
Il modello è stato costruito assumendo che ogni partito ottenga sul piano nazionale un risultato pari a quello previsto dalla media dei sondaggi sulle intenzioni di voto pubblicati nelle ultime due settimane. Assume quindi anche che le varie liste minori alleate del Pd e la “quarta gamba” del centrodestra non superino la soglia del 3% ma, prendendo poco più dell’1%, portino in dote questi voti ai partiti maggiori sul proporzionale in cambio di qualche seggio in collegi uninominali sicuri.
Naturalmente, non è affatto detto che il 4 marzo gli italiani voteranno così. E cambiamenti di pochi punti percentuali, dentro il normale margine di errore statistico, possono produrre variazioni importanti nella ripartizione dei seggi. Presumo però che anche altri analisti o istituti abbiano usato una tecnica simile e che quindi i risultati della mia analisi non siano tanto distanti da quelli presi a riferimento dai dirigenti di partito per compilare le liste.
Dalle tabelle relative ai singoli collegi si capisce, dunque, quali sono i candidati che leader e capicorrente hanno scelto di privilegiare, quali candidati sono finiti in collegi persi in partenza, quali in collegi in bilico, in cui dovranno combattere se vogliono conquistare il seggio. Possono anche essere lette come una stima del vantaggio o dell’handicap con cui ciascun candidato si presenza ai nastri di partenza. Da questo punto di vista, forniscono un parametro in base al quale si potrà valutare “se e quanto” ciascun candidato avrà contribuito, in positivo o in negativo, al risultato finale.
Il modello che ho adottato produce una stima puntuale del risultato atteso di ciascuna coalizione in ogni singolo collegio. Ma si tratta di stime che vanno prese come approssimazioni spannometriche.
La definizione di ‘collegio sicuro’ indica una vittoria annunciata. Vuol dire che il candidato in questione parte favorito, ad una distanza dal secondo di almeno cinque punti percentuali. Considero collegio in bilico quelli in cui due o tre candidati sono sostanzialmente appaiati, cioè e meno di cinque punti di differenza.
Non bisogna dimenticare che nei collegi uninominali si assegna solo il 37% dei seggi. Per l’assegnazione di tutti gli altri, su base proporzionale, vale la percentuale di voti presa da ciascun partito e l’ordine di presentazione dei candidati nelle liste dei collegi plurinominali. Siccome la stessa persona può essere candidata contemporaneamente in un collegio uninominale e in cinque collegi plurinominali, alcuni dei candidati che appaiono senza speranze nell’uninominale, hanno in realtà già in tasca il biglietto per i palazzi romani grazie alla posizione in lista.
La previsione dei “seggi sicuri” nella quota proporzionale è in alcuni casi più semplice e certa, in altri assolutamente aleatoria. Ad esempio, i capilista del PD e del M5S, salvo sconquassi, sono quasi tutti blindati. In molte circoscrizioni lo sono anche i secondi o i terzi. Ma quando si arriva alla assegnazione dei seggi sulla base dei cosiddetti “resti” inizia una specie di lotteria i cui meccanismi sfuggono anche ad alcuni professionisti del settore. Si intende: i “professionisti” che hanno compilato le liste conoscono abbastanza bene questi tranelli e usano l’alea sottostante per persuadere i candidati meno informati ad accettare posizioni scomode oppure per piazzare in posizioni solo apparentemente insicure candidati che intendono garantire.
Un ulteriore fattore che rende poco trasparente l’ordine di lista è costituto dalle candidature multiple. Nei partiti piccoli come Liberi e Uguali o Fratelli d’Italia sono comprensibilmente utilizzate dai leader per trainare voti e per mettersi in tasca più biglietti della “lotteria”. Nei partiti grandi viene usata anche per aggirare le norme sull’equilibrio di genere. Se, come capita spesso, i maschi a cui si vuole garantire il seggio sono in numero superiore alle donne, che si fa? Si candidano donne nemmeno così note in due o più collegi plurinominali in posizione sicura. Non per garantire con assoluta certezza la loro elezione (per quello basterebbe che fossero messe in posizione sicura in una sola lista), né perché attraggano voti. Ma perché così, risultando già elette in un collegio, fanno scorrere la lista negli altri collegi plurinominali a vantaggio dei candidati maschi che seguono. Quindi, candidati che appaiono collocati in posizione non eleggibile, sono in realtà destinati ad entrare in Parlamento.
Quanto al risultato complessivo, se le tendenze nelle intenzioni di voto rilevate ormai da qualche settimana con una certa regolarità si dovessero stabilizzare, rimane una sola incognita, politicamente molto rilevante.
Pare assodato che 5 Stelle e Pd siano troppo distanti dal centrodestra per arrivare primi. L’unico quesito è se la coalizione elettorale messa insieme da Berlusconi otterrà oppure no la maggioranza assoluta dei seggi. Nel primo caso non solo potrà ma – anche contro le aspettative di alcuni suoi leader – dovrà per forza di cose diventare una coalizione di governo.
Se invece la maggioranza non c’è, il Pd, anche con un cattivo risultato in termini percentuali, potrebbe mantenere un ruolo centrale in qualsiasi tentativo di tenere in vita la legislatura con un governo “di continuità”, di “larghe intese” o con “un governo per la riforma dell’Unione Europea” sulla linea Merkel-Macron.
Ad oggi, il centrodestra sembra molto vicino al risultato. Se prendessi completamente sul serio, fino ai decimali, le intenzioni di voto rilevate dai sondaggi e il mio modello di simulazione, dovrei dire che lo ha raggiunto: di pochissimo alla Camera e con un margine un po’ più ampio al Senato.
Mi pare più realistico assumere che l’esito finale sarà deciso in quei circa ottanta collegi uninominali della Camera e nei circa trenta collegi uninominali del Senato che risultano contendibili per il centrodestra. Se li prende tutti, ottiene una confortevole maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Più o meno la metà di questi seggi sono contesi tra il centrodestra e il centrosinistra nel Lazio e nel Nord, l’altra metà sono contesi tra il centrodestra e i Cinque Stelle nel Sud. Quindi, per uno strano paradosso, la centralità parlamentare del “Pd di Renzi” è appesa al successo elettorale del “partito di Di Maio”.