Le proposte del gruppo Unibo
Riassunto. Il punto di partenza è dato dalla riduzione delle risorse a disposizione. Considerando questa situazione come stabile, le proposte sono di riqualificare la spesa per l’istruzione superiore, attraverso: i) il reclutamento, soprattutto delle fasce alte di docenza; ii) il portare le fasce docenti a tre; iii) il ristrutturare il sistema dei professori a contratto; iv) il liberalizzare le tasse universitarie all’interno di una rete che salvaguardi gli studi dei meno abbienti; v) il rivedere la funzione del sistema di ricerca, strettamente connesso a quello dell’istruzione superiore, almeno attuando: a) una riduzione della dispersione dei fondi riducendo il numero di iniziative cui questi sono dedicati; b) l’organizzazione di una precisa anagrafe dell’impiego del tempo di ricerca; c) la costituzione di un efficiente sistema di peer review che operi contemporaneamente al CIVR. Un buon sistema di valutazione aumenta le opportunità per tutti coloro che fanno parte del – o utilizzano il – sistema di istruzione superiore.
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Premessa
La situazione economica attuale aggrava il problema della riduzione del finanziamento pubblico dell’istruzione superiore che si è manifestato, in tutto il mondo occidentale, negli ultimi anni. Benché un’analisi approfondita di tale situazione esuli dai limiti di questo scritto, si possono sommariamente delineare almeno due cause determinanti.
La prima è costituita dalla concorrenza, assai remunerativa in termini di consenso sul breve periodo che caratterizza il ciclo politico delle democrazie occidentali, di altri settori della spesa pubblica (per esempio: la sanità e, più genericamente, gli interventi sociali).
La seconda, più sottile, sembra rappresentata dalla difficoltà che oggi si incontra nell’attribuire all’istruzione superiore finalità coerenti con la complessità della struttura sociale. Una visione in vigore in tempi non troppo lontani, considerava la conoscenza come fine dell’attività intellettuale e, dunque, l’istruzione superiore come uno strumento per formare individui colti che potessero poi, per questa caratteristica, costituire l’elite dirigente di un paese. In questo modo, l’acquisizione di una cultura generale e di diverse abilità specifiche si radicava in un contesto più ampio per collegarsi a certezze di appartenenza e ad aspettative non deluse di riuscita. Uno dei motivi che hanno portato al tramonto di questa visione, è costituito dall’emergere di un punto di vista che considera la conoscenza fornita dall’istruzione superiore come uno strumento dello sviluppo economico. Come, ad esempio, scrivono:
1) The Oslo manual of the measurement of scientific and technological activities della OECD (2002): “The knowledge-based economy is an expression coined to describe trends in the most advanced economies towards greater dependence on knowledge, information and high skill levels, and an increasing need for ready access to all of these. Today, knowledge in all its forms plays a crucial role in economic processes. Nations which develop and manage effectively their knowledge assets perform better. Firms with more knowledge systematically outperform those with less. Individuals with more knowledge get better paid jobs. This strategic role of knowledge underlies increasing investments in research and development, education and training, and other intangible investments, which have grown more rapidly than physical investment in most countries and for most of the last decades”.
2) Il Documento comune sull’Università, di Abi, Agci, Ania, Casartigiani, Cia, Coldiretti, Claai, Cna, Confagricoltura, Confapi, Confartigianato, Confcommercio, Confcooperative, Confesercenti, Confindustria, Confetra, Confservizi, Legacoop (2006): “L’Europa e l’Italia si trovano ad affrontare un difficile e urgente passaggio per il rilancio delle loro economie, che richiede un incremento della produttività, del tasso di occupazione, delle capacità innovative. L’Università in questo passaggio, data l’importanza che ha assunto lo sviluppo della conoscenza in tutti i processi competitivi, assume un ruolo molto importante, quello di motore dell’economia della conoscenza e della internazionalizzazione. Il mondo della conoscenza – formazione, ricerca, innovazione – sta avendo sempre più la funzione di asse portante del mondo produttivo. Sono quindi avvantaggiati i paesi dotati di sistemi di conoscenza forti e internazionalizzati e penalizzati i paesi ove tali sistemi sono più deboli; questo vantaggio comparato si riflette sulla creazione e diffusione delle tecnologie, sulle professioni, sul consumo e sul benessere generale.”
Si può apprezzare la radicalità di questa visione se si tiene conto che con essa il perseguimento della conoscenza passa dall’essere l’obiettivo primario degli studi superiori, connotato anche da profonde considerazioni etiche, a divenire uno strumento utilizzato per uno scopo molto più precisamente delineato (ben espresso da una locuzione di effetto come “l’economia della conoscenza”).
Per quanto concerne il nostro Paese, la visione economica dell’istruzione superiore contribuisce a far sì che la tendenza delle elite dirigenti, a ragionare e provvedere soprattutto sul breve periodo, si saldi alla difficoltà di determinare quantitativamente i “beni” prodotti dal sistema, che sono caratterizzati non solo dall’essere per lo più “intangibili”, ma anche dal fatto di produrre effetti sul lungo periodo. Per esempio, la valutazione dei “prodotti” e delle “risorse impiegate “si concentra soprattutto su indicatori indiretti e parziali che riguardano, nel caso dei primi, gli studenti (il numero degli immatricolati e degli iscritti, dei laureati, dei fuori corso ecc.) e i corsi di studio (numero, iscritti ecc.) e, nel caso delle seconde, l’entità dell’esborso dell’amministrazione centrale. Nel momento in cui la durata media degli studi e il numero di corsi di insegnamento (questi, peraltro costituiti con l’assenso formale delle diverse associazioni professionali) tendono a collocarsi al di là di limiti che, benché non siano mai stati stabiliti in base a un qualche studio ragionevole, sono considerati indicatori di uno stato di inefficienza, l’autorità centrale si sente investita del compito di preservare la funzionalità di uno strumento, universalmente ritenuto importante per lo sviluppo economico, intervenendo sulle cause che la minacciano: per questo non sembra un caso che il progetto attuale di riforma si prefigga di contrastare il mal governo delle strutture, ovvero di incrementarne la managerialità e le modalità di reclutamento dei docenti. A questo proposito, si può notare come l’ennesimo blocco del turnover ribadito dalla legge “finanziaria” del giugno-luglio 2008 sia lenito, per le sole università che hanno i conti in regola per quanto riguarda la spesa del personale (si veda più oltre), dal DL 180/2008 che però aggiunge un correttivo importante sulla via della ristrutturazione del reclutamento del personale docente, ponendo per la prima volta dei limiti alle risorse impiegabili: uno superiore (non più del 10%) per la fascia, più onerosa, dei professori ordinari e uno inferiore (non meno del 60%) per i ricercatori. In un certo senso, l’intervento centrale sembra muoversi nell’ambito “economicamente corretto” della riduzione dell’intervento pubblico nell’economia approntando, in questo processo, aree di efficienza e di buona qualità cui possano partecipare poi anche i privati.
L’approccio economico all’istruzione superiore contiene tuttavia alcuni elementi di forza: per esempio, esso implica che essa debba essere largamente diffusa, che le risorse impiegate, proprio per la natura economica dell’insieme, possano anche assumere la veste di investimenti e, infine, che il rendimento debba essere misurato con tecniche e tempi appropriati alla natura dell’attività svolta.
Risorse
Il dato costante degli ultimi trent’anni per il nostro Paese è che l’ammontare del finanziamento pubblico del sistema di istruzione superiore sia sempre rimasto nel rango dello 0,7-0,9 % del PIL (Tabelle del Gruppo 1). Benché questa stabilità risulti piuttosto variegata quando si esaminino gli innumerevoli provvedimenti presi per l’Università in questo lasso di tempo, sembrerebbe conveniente considerarla come un limite per ora invalicabile nella costruzione di qualsiasi ipotesi di riforma del sistema.
Se il finanziamento pubblico rimane stabile, si possono aumentare le risorse a disposizione del sistema soltanto attraverso le vie tradizionali della diminuzione delle spese, dell’aumento della produttività e dell’incremento della contribuzione privata, ovvero dei contributi sia pagati dagli utilizzatori diretti (tuition fees), sia elargiti attraverso diverse forme di liberalità.
Finanziamento pubblico. Come è a tutti noto, la quota maggiore del finanziamento pubblico per il sistema della istruzione superiore prende ora la forma del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), trasformato dalla legge finanziaria 1994 (537/1993) portando le spese per il personale docente e non docente, per la ricerca scientifica universitaria e per la manutenzione ordinaria, direttamente al bilancio universitario. Questo ha fornito uno strumento non indifferente al processo dell’autonomia universitaria che, però, è stato progressivamente eroso dall’aumento delle spese per il personale (si può citare, per esempio, l’assorbimento entro queste ultime della quota per la ricerca universitaria, il cosiddetto “60%” della legge 382/80). Come è altrettanto noto, con la legge finanziaria 1998 (499/1997) fu introdotto il vincolo che il livello massimo di spesa per il personale di ruolo delle università statali, sul totale dei trasferimenti statali disposti annualmente attraverso lo FFO, non eccedesse il 90% di questo. Il mancato rispetto del limite avrebbe comportato che le università interessate non potessero procedere a nuove assunzioni, se non nel limite del 35 per cento del risparmio determinato dalle cessazioni dell’anno precedente. Tuttavia, il d.l. 97/2004 consentì di non tener conto degli aumenti retributivi del personale docente e delle spese per il personale universitario chiamato a svolgere la propria attività presso il Servizio sanitario nazionale; una possibilità, questa, prorogata fino al 31 dicembre 2008.
Una buona parte dei dati che concernono il nostro Paese è raccolta e classificata secondo criteri di tipo giuridico, il che spiega perché le indagini concernenti le spese per il personale impiegato dal sistema dell’istruzione superiore si riferiscano esclusivamente a quello di ruolo; curiosamente, i dati disponibili distinguono tra le singole figure nel settore docente, ma non in quello tecnico-amministrativo. Evidentemente, in questo modo si trascurano altre figure come i borsisti (di dottorato ecc.), gli assegnisti di ricerca, i professori a contratto (di queste figure sono però note le consistenze numeriche complessive) e il personale tecnico-amministrativo a contratto (compresi i dirigenti).
Le Tabelle del Gruppo 2 mostrano l’evoluzione del personale di ruolo , sia docente sia non docente della Università nel decennio 1998-2007, nei termini sia di consistenza numerica, sia di spesa. Questo lasso di tempo coincide con quello di applicazione della legge che ha trasformato le procedure di reclutamento del personale docente (210/1998), il cui principale effetto positivo fu di superare il blocco sostanziale delle assunzioni, determinato dalla esasperante lentezza delle procedure centralizzate dei concorsi nazionali, e il cui principale effetto negativo fu quello di rendere molto più remunerativi, sul piano finanziario, i passaggi di ruolo locali. Il dato più chiaro che le Tabelle mostrano è rappresentato dal fatto che le spese per il personale docente di ruolo, soprattutto a causa dell’incremento del numero dei professori ordinari, sono quelle che sono maggiormente aumentate nel breve periodo. La possibilità che esse possano portare il sistema di istruzione superiore a impiegare le proprie risorse quasi esclusivamente per il personale è plausibile, anche tenendo conto del fatto che il personale non di ruolo, nonostante manchino dati aggregati di spesa, grava su queste.
Il tema del personale impiegato dal sistema di istruzione superiore è affrontato in modo comparativo nelle Tabelle del Gruppo 3, che adattano i dati per l’Italia a un confronto con la Gran Bretagna, la Germania e la Francia, Paesi che hanno sistemi di istruzione superiore abbastanza simili al nostro. L’esame di questi pochi dati dà alcune indicazioni: i) il sistema di istruzione superiore italiano difetta di personale di ruolo; ii) l’organigramma del personale docente è ad andamento cilindrico e presenta un eccesso di professori ordinari; iii) le quote di docenti esterni e di personale più giovane in verosimile attesa di una carriera accademica sono molto elevate.
Quest’ultimo dato appare particolarmente preoccupante se si tiene conto che il reclutamento del passato è stato effettuato sulla base soprattutto di “aggregati generazionali”, per provvedimenti di sanatoria, la lentezza dei concorsi nazionali e i diversi blocchi del turnover. Pertanto, poiché non è possibile pensare che qualsiasi governo possa pensare di aumentare, e ciò per un periodo di tempo assai lungo, la spesa per il personale universitario, occorre approfittare del prossimo paventato turnover di aggregato generazionale per intervenire drasticamente sull’organigramma del personale docente di ruolo, il che significa che l’attuale norma di almeno il 60% delle risorse disponibili da dedicare al reclutamento dei ricercatori e di non più del 10 % agli ordinari non debba essere abolita, ma utilizzata per ridisegnare un assetto piramidale delle carriere secondo un organigramma di rapporti proporzionali tra le fasce docenti, che dovrebbe essere fissato per legge: in pratica, la speranza di carriera deve essere soddisfatta non solo in base al merito individuale, ma anche alla disponibilità dei posti. Poiché la speranza di carriera deve essere concessa anche a chi è all’esterno, occorre impedire l’abolizione del ruolo dei Ricercatori che va trasformato in una vera fascia docente universitaria. Infatti, non è vero che i sistemi universitari siano, in prevalenza, organizzati su due sole fasce docenti ed è universalmente vero, invece, che chi entra all’università deve adoprarsi fin da subito nella ricerca e nell’insegnamento. Poiché si parla di sistema di istruzione superiore, con all’orizzonte la probabile sostituzione delle Facoltà con le Scuole, converrebbe ridisegnare il sistema dei professori a contratto, come corpo che raccogliesse importanti figure ausiliari e anche docenti universitari che non si occupassero più di ricerca.
Contributi degli studenti. Il mezzo più semplice per aumentare la contribuzione studentesca è quello di lasciare le strutture del sistema di istruzione superiore completamente autonome nella determinazione degli importi. I dati forniti dall’ISTAT per il settennio 2001-02/2007-08 (Tabelle del Gruppo 4) suggeriscono come una tale liberalizzazione necessiti di alcuni correttivi, perché risulta evidente come sia il tasso di passaggio dalla scuola agli studi superiori, sia il successo di questi misurato come numero dei laureati rispetto alla popolazione giovanile, non riescano a migliorare. Tuttavia, le modifiche dei cicli di studio introdotte nel sistema con il processo di Bologna, sembrano almeno ridurre la durata media degli studi, ovvero il numero di laureati che consegue il titolo oltre la cosiddetta durata legale.
I correttivi da introdurre in seguito alla liberalizzazione completa dei contributi potrebbero essere: i) vincolare percentuali proporzionali agli introiti all’accensione di vere borse di studio; ii) porre vincoli organizzativi e struttturali molto più stringenti degli attuali all’attivazione dei corsi di studio, compreso l’obbligo di stabilire, su questi, il numero di studenti iscrivibili; iii) introdurre il numero chiuso e test di ingresso nazionali, sia rigidi rispetto ai posti stabiliti (come, ad esempio, per medicina), sia flessibili correlandoli ai risultati ottenuti durante il primo anno degli studi; iv) ridurre drasticamente (per esempio a un anno) il periodo senza esami che porta alla decadenza della qualifica di studente; v) incentivare, all’interno di percentuali definite rispetto agli iscritti, lo studio part-time; vi) portare a deduzione completa l’iscrizione ai cosi universitari al di sotto di certe soglie di reddito.
Contributi liberali. Questo tema è strettamente legato a quello, successivo, concernente il sistema della ricerca scientifica e, dal punto di vista strutturale, al problema se valga la pena, in ordine all’acquisizione di fondi privati, trasformare il sistema dell’istruzione superiore in una serie di fondazioni, un aspetto che esula dai limiti della trattazione.
Il sistema della ricerca scientifica
Qualsiasi tentativo serio di riforma del sistema dell’istruzione superiore non può essere affrontato senza che si ponga in essere una ristrutturazione, coerente con il cambiamento, del sistema della ricerca scientifica. Ciò per la semplice constatazione che la ricerca costituisca la parte fondamentale e irrinunciabile dell’istruzione superiore.
Le Tabelle del Gruppo 5 raccolgono alcuni dati sparsi, soprattutto nel sito MIUR, concernenti il finanziamento della ricerca del sistema di istruzione superiore. Per questo, non si sono presi in esame i finanziamenti per la ricerca del Ministero della Salute e dell’Industria; tuttavia, parte dei fondi per la ricerca di questi Ministeri e parte dei fondi che il MIUR distribuisce agli Enti di ricerca posti sotto la sua vigilanza raggiungono anche appartenenti al sistema dell’istruzione superiore. I dati che colpiscono maggiormente sono la scomparsa dei fondi FIRB, il progressivo contrarsi dei fondi PRIN e la costanza delle somme messe a disposizione degli Enti di Ricerca. Ciò che non appare dalle Tabelle è sommariamente descritto qui di seguito:
A. FIRB
i) Il FIRB nasce con la Legge finanziaria del 2001, che destina il 10% dei proventi derivanti dal rilascio delle licenze individuali per i sistemi mobili di terza generazione.
ii) Si procede con criteri valutativi nei confronti di progetti autonomamente presentati per lo svolgimento di attività di ricerca di base di alto contenuto scientifico e tecnologico e con criteri negoziali nei confronti di interventi di sostegno a favore di: a) progetti di potenziamento delle grandi infrastrutture di ricerca pubbliche o pubblico-private; b) progetti strategici per lo sviluppo di tecnologie pervasive e multi-settoriali; c) progetti per la costituzione, il potenziamento e la messa in rete di centri di alta qualificazione scientifica, pubblici o privati, anche su scala internazionale.
iii) il FIRB si apre a università, enti di ricerca pubblici e privati che svolgano attività di ricerca non a fini di lucro e contribuisce a queste nella misura pari al 70% dei costi riconosciuti ammissibili. Esso riconosce interamente le spese del personale adibito all’attività di ricerca, una quota forfettaria di spese pari al 60% del costo del personale, la quota inerente al progetto delle spese per l’acquisizione di attrezzature.
iv) La presentazione dei progetti autonomi è sospesa nel 2002; la legge finanziaria per il 2006 istituisce il Fondo per gli Investimenti della Ricerca Scientifica e Tecnologica (FIRST) nel quale confluiscono le risorse del FIRB e del PRIN.
B. PRIN
i) Nel 1997, la quota del 40% dello stanziamento annuale per la ricerca scientifica (legge 382/80, affidata ai Comitati CUN) viene trasformata nel co-finanziamento dei PRIN liberamente proposti dalle Università. Si stabilisce una differenza tra progetti interuniversitari e intrauniversitari (60%-40%, che diviene, dal 1998, 70%-50%) e la loro selezione è affidata a una Commissione di garanzia che deve avvalersi di revisori anonimi; dal 1998 i progetti si presentano anche in lingua inglese.
ii) Nel 2005 scompare la distinzione del co-finanziamento tra progetti interuniversitari e intrauniversitari e dal 2006 si possono formare unità di ricerca guidate da personale dell’INAF per i progetti presentati nell’area 02-Fisica.
iii) Nel 2007, a ogni progetto può partecipare un’unità operativa diretta da personale appartenente agli Enti di Ricerca afferenti al MIUR. Si introduce una riserva del 10% delle disponibilità per i giovani (età inferiore ai 40 anni, secondo la Legge finanziaria ) ricercatori.
iv) Nel 2009 il cofinanziamento PRIN riconosce le spese del personale adibito all’attività di ricerca.
L’esiguità delle somme a disposizione porta a una selezione durissima e spesso incomprensibile dei progetti, che avviene con un sistema di peer review lento, di cui non vengono comunicati la consistenza e i risultati complessivi, e alla riduzione cospicua delle somme ottenute dai progetti finanziati (un tentativo arbitrario, perché non ne viene comunicata la motivazione, di lenire la durezza della selezione).
Poiché è improbabile che le disponibilità finanziarie pubbliche per la ricerca scientifica possano aumentare considerevolmente, occorre razionalizzare il più possibile l’impiego dei fondi a disposizione e aumentare i contributi liberali. Il primo intervento richiederebbe la ristrutturazione dell’intero sistema di ricerca italiano sul modello dei Research Councils britannici, ma tale proposta è così radicale da richiedere una trattazione che esula dai limiti di questo intervento. Ciò stabilito, i principali strumenti per ottenere quanto delineato in premessa al paragrafo potrebbero essere::
i) La organizzazione di un solido e stabile sistema di peer review, sul modello nordamericano del National Institute of Health o britannico dei Research Councils (questi sistemi producono accurati manuali esplicativi delle procedure e forniscono supporto e soprattutto spiegazioni analitiche del risultato della valutazione, in modo che gli applicanti che hanno fallito possano migliorare). Poiché la comunità scientifica italiana è abbastanza esigua, il sistma dovrebbe essere formato in maggioranza da esperti stranieri.
ii) La ricostituzione dell’unicità del fondo FIRST con l’eliminazione di ogni sottoprogetto a mira particolare.
iii) La costituzione di un anagrafe dei ricercatori, che registri obbligatoriamente i mesi uomo che ciascuno impegna per un qualsiasi progetto (anche se finanziato da privati); al singolo o al gruppo di ricerca rimane l’assoluta libertà di impiegare il proprio tempo laddove si ritenga più conveniente in termini di successo scientifico od economico. Poiché i mesi uomo convenzionali sono in genere costanti in un annoi (ad esempio 11), si aumenterebbero le risorse a disposizione di tutti evitando presentazioni plurime di qualcuno. I più bravi continuerebbero comunque a guadagnare le posizioni più remunerative, lasciando però quelle meno remunerative ai meno bravi che così potrebbero sopravvivere e predisporsi a sostituire i migliori. A questo proposito occorre rammentare che la ricerca scientifica, soprattutto se di base, è soggetta a oscillazioni continue nella quantità dei risultati ottenuti.
Un buon sistema nazionale di peer review è anche essenziale per raccogliere i contributi privati, per il fatto di poter offrire immediatamente una garanzia di buon impiego del denaro. A ciò basterebbe aggiungere la massima trasparenza, fino alla possibilità di verifica dell’impiego finanziario da parte del singolo donatore- A questo proposito occorre ricordare che le Fondazioni bancarie italiane aderenti all’ACRI (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio, in pratica tutte) hanno finanziato, nel decennio 1999-2008 la ricerca scientifica italiana con 1.315.000.000 Euro (una somma di 200 milioni superiore a quella del PRIN) e la salute (una parte di questi fondi arriva alla ricerca) con 1.062.900.000 Euro. Poiché le Fondazioni sono molto legate al territorio, per cercare di evitare la dispersione per clientela locale di tali risorse, si potrebbe diminuire fortemente l’IRES per le somme distribuite da questi Enti attraverso il sistema di peer review nazionale.
La valutazione ex post della ricerca svolta nel sistema di istruzione superiore
Il primo “esercizio” di valutazione del sistema dell’istruzione superiore fu attuato dal Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR) nel 2004 per il periodo 2001-2003. Questo esercizio fu condotto sulla falsariga dell’eguale esprienza britannica (Reserarch Assessment Exercise, RAE, iniziato nel 1986), con tre differenze principali: i) il sistema CIVR riguardava anche gli Enti di Ricerca, quello britannico le unità (dipartimenti-università-colleges) del solo sistema di istruzione superiore; iii) le aree di indagine CIVR erano le 14 aree scientifico-disciplinari CUN, quelle britanniche 6, corrispondenti ai Research Councils.
Il secondo esercizio CIVR 2004-2008 è in fase di avvio e mantiene le stesse caratteristiche fondamentali del precedente, portandosi però più vicino a quello britannico avendo come fine la valutazione delle unità strutturali (dipartimenti) del sistema.
Questo tipo di valutazione ha la stessa valenza fondamentale del sistema nazionale di peer review, vale a dire la possibilità di fornire giudizi resi obiettivi dalla comprensibilità, trasparenza e stabilità delle procedure utilizzate. Non vi è modo più efficace di migliorare le prestazioni, sia degli individui, sia delle strutture, di quello di far comprendere la causa delle insufficienze e degli errori.
I sistemi di valutazione portano anche altri vantaggi:
i) essi fanno comprendere alla società e al sistema politico che le procedure valutative sono tanto più lunghe ed elaborate quanto più complessi sono i sistemi cui si applicano: non si può dunque pensare di valutare l’efficienza del sistema di istruzione superiore o i suoi “prodotti” in tempi abbreviati; dunque, è possibile pensare che il denaro assegnato al sistema possa passare dalla colonna dei costi a quella degli investimenti;
ii) un sistema di valutazione efficace considera gli effetti delle azioni collettive e individuali e, dunque, le responsabilità; pertanto, per quanto concerne il sistema di istruzione superiore italiano, il giudizio giustamente portato dal CIVR a livello delle unità strutturali (i dipartimenti) implica che a queste debba essere affidata la gestione completa del personale: ciò significa che nei progetti di riforma si deve stabilire che siano i dipartimenti a reclutare direttamente il personale docente;
iii) le modalità di costituzione di sistemi complessi di valutazione dell’istruzione superiore possono essere estese anche alla preparazione delle prove nazionali di accesso ai corsi di studio o alla valutazione della preparazione professionale specifica propri degli esami di stato.