Come snellire le province
Il 15 giugno la Camera dei Deputati ha evitato di votare sul progetto di legge costituzionale proposto dall’IdV per l’abolizione delle Province. Un argomento di cui si parla da anni, oggetto di una delle promesse elettorali più roboanti dell’attuale premier, di una campagna d’opinione dell’Udc, in sintonia con le posizioni di Confindustria ed altre forze sociali. Anni durante i quali le Province sono cresciute per numero, risorse impiegate e funzioni. Tutti i gruppi contrari all’abolizione, compreso quello cui appartengo, si sono impegnati a trovare modifiche costituzionali mirate a “razionalizzare” le Province. Scelta assai ragionevole, che viene tuttavia presa per la seconda volta. Il 18 gennaio fu già richiesto il ritorno in Commissione del progetto IdV con la stessa promessa. Poi, durante quattro mesi non proprio stressanti per l’attività parlamentare, la disponibilità a lavorare allo snellimento si è liquefatta.
Mentre la razionalizzazione è necessaria. Tanto più in tempi in cui si chiede ai cittadini di tirare la cinghia. Oggi può capitare che le Province si diano obiettivi guidati più dalle esigenze di visibilità degli amministratori che dagli interessi dei territori; le loro burocrazie paiono sovradimensionata rispetto ad altri comparti della PA e alle funzioni che dovrebbero svolgere; i consigli provinciali sono spesso sede di dibattiti su temi estranei alle loro prerogative (dal testamento biologico al riconoscimento dello stato di Palestina, dagli aiuti allo sviluppo al contratto di Pomigliano); le sovrapposizioni di competenze con altri livelli di governo sono frutto di inutili complicazioni per i cittadini e le imprese.
Ma attorno a questo tema ci sono diffuse ipocrisie, simili a quelle che circondano la revisione del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari. Molti di coloro i quali chiedono l’abolizione lo fanno sapendo che non passerà, non solo per resistenze corporative, ma perché un ente di livello intermedio è necessario, soprattutto in presenza di molti comuni di piccole dimensioni. In tutti i paesi Europei c’è un ente simile (mentre è sicuramente vero che non esiste al mondo un altro sistema parlamentare con due Camere perfettamente gemelle per composizione e funzioni come in Italia). Quindi, fino a quando ci saranno in giro solo tifosi, di fede incerta, dell’abolizione totale, i tanti che preferiscono mantenere intatto lo status quo possono stare sereni.
Ora il rischio è che la montagna partorisca il topolino e che la razionalizzazione, semmai dovesse arrivare, consista in ritocchi marginali o aggirabili dalla legislazione ordinaria. Se si vuole razionalizzare sul serio, bisogna invece aggredire quattro profili: 1) introdurre soglie rigide a carattere demografico e territoriale per ridurre il numero delle Province attuali ed impedirne in seguito la proliferazione; 2) circoscrivere le loro funzioni a quelle di area vasta, ovvero di coordinamento e collaborazione tra i comuni; 3) trasformare i Consigli in Assemblee dei sindaci in modo da ridurre i costi e l'entità del personale politico, per raccordare più direttamente le Province con i Comuni e avere un organismo più efficace di indirizzo e controllo delle Giunte provinciali; 4) stabilire che le Città Metropolitane non possono coesistere con le Province e che possono essere istituite solo dove i Comuni siano realmente disposti a cedere parti pregiate della loro sovranità, riconoscendo che è meglio sia esercitata in una dimensione, appunto, metropolitana.
L’esperienza induce allo scetticismo. L’infinito dibattito parlamentare dimostra che su temi come lo snellimento delle Province e del Parlamento, senza una pressione esterna al sistema politico, difficilmente si faranno passi avanti significativi. Quella società civile che ha appena dato prova della sua vitalità è caldamente invitata a battere un colpo.