Amarcord e altri pensieri
Di seguito il trascritto (appena pubblicato) di una conversazione estiva con il direttore di Pyros. Che non è una nuova testata online di nicchia per militanti incediari, ma un giornale mensile, cartaceo, di consolidata notorietà e "larga diffusione" …. a San Giovanni a Piro, Bosco e Scario: l'angolo d'Italia in cui sono nato. Insieme all'amarcord, qualche ragionamento sulla situazione politica attuale e sul Sud. Le due domande finali ricorrono in tutte le interviste della stessa serie..Qui la versione in Pdf.
L’appuntamento è fissato per le diciassette a ridosso del mare scariota: “non so se arrivo in macchina o forse no..”. Nell’attesa preferiamo refrigerarci con un tuffo nel mare azzurrissimo. Ci portiamo sul bagnoasciuga e ci fermiamo là, a traguardare la distesa cristallina spettacolare: i bambini schizzano giocosi, le barche al largo fendono l’acqua placida ed un tale s’ingegna discretamente con il wind surf, sfrutta la brezza e fila rapido, poi s’avvicina alla riva, plana e…. “ma è lui!! ci diciamo sbalorditi..”. Salutiamo l’onorevole Salvatore Vassallo nell’inedita mise dell’istruttore di windsurf. Da lontano abbiamo seguito il suo percorso accademico, poi quello politico alla culla del Partito Democratico e letto per un biennio i brillanti interventi sul Corriere della Sera fino all’incarico parlamentare. Da vicino, oggi vogliamo sondare soprattutto l’uomo e (ci passi il termine oramai desueto, onorevole) il “compaesano”.
Onorevole Vassallo, cominciamo dall’inizio.
Sono nato nel 1965 in Via Roma, un vicoletto di San Giovanni a Piro. Poco dopo i miei si sono trasferiti a Scario dove abbiamo abitato in salita La Piana. Quando avevo cinque anni siamo andati a Salerno e lì ho studiato, fino alla laurea in Scienze politiche. Quando ancora ero al secondo anno di università, mi è stato chiesto di entrare nel gruppo dirigente nazionale della Fuci (ndr, Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e da allora ho di fatto vissuto più spesso a Roma: avevo vent’anni e questa esperienza associativa, assai rilevante per la mia formazione, si è protratta per tutta la seconda metà degli anni ottanta. A Roma ho continuato ad abitare fino al 1995, sommando due o tre collaborazioni part time, come è ormai la regola tra chi si affaccia al mondo del lavoro, per essere autosufficiente. Nel 1993 ho iniziato il Dottorato all’Università di Firenze.
Qui l’incontro fatale con Elisabetta.
Infatti. Proprio a Firenze ho conosciuto una collega modenese che sarebbe diventata mia moglie, due anni dopo. Nel 1995 ci siamo sposati e abbiamo deciso di prendere casa a Bologna. Qui non avevo legami con il tessuto accademico, anche se negli anni romani avevo avuto ripetute occasioni per interagire con studiosi bolognesi autorevoli come Gianfranco Pasquino, Augusto Barbera, Arturo Parisi.
Quando e come l’impegno in politica?
Come impegno civico, era già iniziato nei primi anni novanta, quando fui parte del comitato promotore nazionale del referendum per l’uninominale. In senso stretto, è iniziato solo diversi anni dopo. Fino al 2005 ho lavorato in ambito accademico a ritmi che oggi forse non reggerei. Ma devo ammettere che ho anche avuto una carriera professionale fortunata. Nel 2007, subito dopo aver finito il dottorato, mi fu offerto di lavorare come dirigente per la regione Emilia Romagna (avevano bisogno di una persona con profilo accademico che monitorasse l’attività della Commissione bicamerale sulle riforme Costituzionali presieduta da D’Alema e seguisse sul piano legislativo l’applicazione delle leggi Bassanini sul decentramento).
E la carriera universitaria?
Mentre ero in regione ho insegnato a Trento, come professore a contratto. Poi nel 99 ho vinto il concorso da ricercatore a Bologna-Forlì e ho lasciato l’incarico in Regione. I passaggi successivi sono stati più rapidi di quanto sia oggi usuale e nel 2005 son diventato professore ordinario. Nel frattempo ero anche impegnato, come Vicedirettore, all’Istituto Cattaneo, uno dei centri di ricerca italiani più qualificati nel mio settore.
Anche sua moglie è docente universitaria?
Abbiamo avuto una carriera parallela, in discipline affini. Ma lei è più brava di me. È del 68 ma ha vinto tutti i concorsi, dal dottorato a quello da ordinario, con qualche mese d’anticipo. Da quest’anno anche lei ha un incarico all’Istituto Cattaneo, ma come Presidente!
Avete bimbi?
Sofia di 9 anni e Giacomo di 4. Due faticose meraviglie.
E l’impegno politico?
In senso stretto, inizia solo nel 2005, per sostenere un cambiamento che mi pareva allora assolutamente necessario e non rinviabile. In quell’anno, insieme ad altri colleghi quarantenni "prodiani", costituimmo una scuola per la formazione politica a sostegno del progetto, ancora di là da venire, del Partito Democratico. Ebbi anche un ruolo dietro le quinte nelle primarie poi vinte da Prodi. Avevo redatto una prima versione rimasta poi pressoché immutata del regolamento (quello oggi emulato dal Partito socialista francese per scegliere il loro candidato alle presidenziali).
Ma l’attività formativa prosegue fino all’attualità.
Insieme ad altre persone vicine al PD, tra cui in primo luogo Michele Salvati, nel maggio 2008 ho dato vita alla Fondazione Scuola di Politica, dal 2010 rinominata “Democratica”, di cui sono Direttore e che è oggi presieduta da Walter Veltroni.
Lei è stato uno dei padri del Partito democratico.
Non esageriamo! Uno dei fondatori, insieme a tanti. Qualche idea a cui ho dato voce ha lasciato un segno. Nell’ottobre del 2006, nell’ambito del Convegno di Orvieto, nel quale fu delineato il progetto del PD, mi fu chiesto di tenere la relazione sul modello organizzativo che avrebbe dovuto assumere il nuovo partito. Le idee su un partito aperto, basato sulle primarie, che allora fecero sobbalzare diversi politici di prima fila e di lungo corso, sono poi rifluite nello statuto del PD. Anche grazie al fatto che nel novembre del 2007 fui chiamato a presiedere la Commissione che lo ha elaborato.
Poi l’elezione al Parlamento.
La candidatura è stata la naturale evoluzione della partecipazione alla fase fondativa del Pd e parte del rinnovamento che Veltroni cercò di imprimere alla sua classe dirigente. Nel 2008 sono stato eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, dove sono componente della Commissione Affari Costituzionali.
Un giudizio sull’attuale legislatura.
Si era aperta con grandi aspettative. All’indomani delle elezioni, si poteva ancora sperare che, grazie alla drastica riduzione del numero dei partiti e al tono non rissoso dato da Walter alla campagna elettorale, potesse essere una legislatura costituente, contrassegnata da un bipolarismo civile imperniato su due grandi forze politiche antagoniste ma entrambe rispettose delle regole istituzionali, e disposte a confrontarsi per migliorarle. Un tale confronto era sembrato per un attimo possibile, ad esempio, poco prima delle elezioni, intorno alla proposta di riforma del sistema elettorale che avevo elaborato e che Veltroni aveva fatto propria, il cosiddetto "Vassallum". Purtroppo, già dalla seconda seduta è apparso chiaro che la maggioranza e il suo leader non avevano nessuna inclinazione a seguire questa condotta "britannica". Nei comportamenti pubblici e privati si sono viste cose che in nessuna democrazia contemporanea sarebbero vagamente concepibili o tollerate.
E il Pd?
Ha risposto in maniera difensiva. Chi aveva mal digerito le novità, ha approfittato del clima, così diverso dalla fase costituente, per addebitare a Veltroni i temporanei successi di Berlusconi, offrendo una rassicurante regressione verso i modi di essere del principale partito di opposizione del passato. La vittoria di Bersani ha segnato una battuta d’arresto rispetto al progetto del “partito aperto e plurale", non identitario e rigorosamente riformista in cui personalmente avevo creduto.
Diamo una parola di speranza ai tesserati e agli elettori del partito.
Di una ragionevole speranza, e non solo di parole, abbiamo oggi un disperato bisogno, anche se la politica ne offre assai poca. La via maestra, per riabilitare la politica e rimettere in moto il Paese, rimane per me la stessa. Un bipolarismo civile, depurato dalle tossine degli ultimi anni e, per la nostra parte, un PD capace di proporre una visione non ideologica di cambiamento, comprensibile anche oltre il tradizionale elettorato della sinistra. Non è un obiettivo vicino. Un governo di transizione (e di tregua), che ristabilisca la credibilità dell’Italia e consenta ai cittadini di cambiare il sistema elettorale con il referendum, sarebbe un primo passo per cominciare a risalire la china.
Ha avuto modo di conoscere o interloquire con il Pd territoriale, del Golfo e del nostro Comune?
Mi capita ovviamente di parlare della politica locale con persone che conosco da tempo, alcune delle quali militano nel PD. In aprile ha organizzato a Sapri un incontro di formazione politica con Democratica a cui hanno partecipato alcuni dirigenti locali.
Lei non è figlio d’arte?
I miei sono entrambi insegnanti di scuola elementare: mia madre calabrese, mio padre di San Giovanni. Nessuna parentela o amicizia di famiglia, nemmeno lontana, con docenti universitari o politici di qualche rilievo. Ma a casa ci hanno abituati a considerare importante lo studio e ad avere rispetto per la cosa pubblica.
Che ricordi ha dell’infanzia a Scario?
Ricordi molto vivi. L’asilo (in una palazzina di Via Rione nuovo) e le maestre (Agata e, credo, Maria) che ad un paio di noi, insofferenti verso il sonnellino post-pranzo, concedevano, in alternativa, di ascoltare Hit parade, il programma radiofonico musicale allora di culto: per era il massimo. In classe con me c’erano tanti che ho visto poi crescere, e forse dovrei dire invecchiare! Ambrogio, Lello, Annalisa, Gerardo, Pietro, Nicola e altri. Ricordo come in un flash back piacevolissimo il grande spazio libero con le querce (dove oggi c’è la piscina dell’hotel Giardino) in cui venivamo accompagnati per stare all’aria aperta e giocare a dondola. Quando ci siamo trasferiti a Salerno, Scario è rimasto il luogo fisso delle vacanze natalizie ed estive.
Aveva qualche simpatia sentimentale il piccolo Salvatore?
Quello proprio piccolo e scariota a tempo pieno si dice avesse una cotta. Forse erano solo chiacchiere scherzose tra adulti. Però ho in effetti un indizio che mi si è impresso nella memoria. Mentre eravamo all’asilo, per una ragione apparentemente futile, diedi alla bambina in questione un sonoro schiaffo che le stampò per qualche ora la mia mano sulla guancia: una delle più imperdonabili mascalzonate di quegli anni e forse un contorto segno di affetto!
Poi l’età della giovinezza.
Nei primi anni settanta a Scario c’erano pochissimi turisti. "Nordici" sofisticati e solitari che apprezzavano il mare incontaminato, l’asprezza della costa e l’essenzialità dei servizi che poteva offrire un paesino di pescatori. In marina la strada asfaltata degradava senza scarto nella spiaggia e i gozzi con le lampare venivano tirati in secca a mano, aiutandosi con i verricelli piantati sulla riva. I verricelli erano anche ottimi nascondigli quando si giocava a tana libera tutti! Per lo più, le presenze estive erano quelle di famiglie che come la nostra si erano trasferite in una città vicina o si erano spostate molto più a Nord. Dieci anni dopo, l’equilibrio era già totalmente cambiato, i numeri erano cresciuti, le compagnie erano diventate più composite, la marina troppo affollata per giocare a tana. Mi sono sempre divertito abbastanza. Come per molti della mia generazione, un bell’anno fu quello dei mondiali (lo stesso di cui parla una nota canzone di Venditti). Più o meno nello stesso periodo ho fatto anche il lavoro più rilassante e "tonificante" che mi sia mai capitato. Un amico che aveva spirito imprenditoriale aveva creato una scuola di windsurf, con un paio di tavole sistemate in marina. Mi coinvolse e per un paio d’anni ho fatto, non so come, l’istruttore. Ci pagai i primi viaggi di piacere e di studio. Il primo in assoluto a New York, con carissimi amici delle estati scariote.
Ha fatto altri lavori occasionali in gioventù?
Da liceale e nei primi anni dell’università, a Salerno, ho raccolto pomodori, fatto il cameriere a giornata, dato lezioni private. Decisamente meglio il windsurf!
Da osservatore qualificato come giudica lo sviluppo di Scario?
Ahimè non sono cultore né di architettura, né di economia del turismo. Per quello che capisco, la sua fortuna sta nell’orografia: incastonato com’è, in un angolo di costa prezioso, affascinante e ispido. Il tratto che va da Tragara agli Infreschi qualcosa negli anni ha perso: non ci sono più le patelle! (ride) Ma è stato impossibile deturparlo, come è avvenuto ad esempio poco più a Sud. Il volume complessivo dei fabbricati costruiti a ridosso del paese, soprattutto negli anni settanta e ottanta, poteva e doveva essere più contenuto, ma tutto sommato l’effetto non è stato devastante. Scario è rimasto un posto decisamente gradevole.
A proposito di sviluppo: non c’è speranza per il sud?
Nessuna speranza se si pensa che lo sviluppo possa venire da trasferimenti finanziari o interventi speciali dello Stato. Pure quelli servono, e negli ultimi anni il governo di centrodestra li ha prosciugati dirottando i cosiddetti fondi FAS verso altre poste di bilancio, più gradite alla Lega. Ma sono utili solo se investiti per creare un contesto di regole, infrastrutture e conoscenze diffuse in cui sia meno difficile creare imprese e generare ricchezza; se sono messi a servizio di una qualche vera vocazione produttiva. Non c’è niente di irreversibile nella storia economica, come dimostra l’attuale ascesa dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e il relativo declino di Europa e Usa. L’inversione può avvenire perché cambiamenti esterni creano nuovi vantaggi di posizione e si coglie in tempo l’occasione per sfruttarli (era ad esempio l’intuizione di Prodi di fare del Sud la piattaforma logistica verso l’Europa dei paesi asiatici emergenti). Oppure perché si trova finalmente la chiave per valorizzare potenzialità sottoutilizzate, come la qualità dell’ambiente e il turismo.
Cosa manca al territorio ed alla gens del posto?
La scarsa disponibilità a cooperare per produrre beni collettivi, quel tipo di beni cioè che non sono divisibili, generano vantaggi per la collettività e per ogni individuo che la compone in maniera indipendentemente dal contributo dato da ciascuno di essi. È un bene collettivo, per fare l’esempio più semplice, la pulizia delle strade, di cui godono tutti, anche quelli che non contribuiscono a mantenerla. Si intende che su questo piano a Scario non esistono particolari problemi. Ma pensiamo invece più in grande. Se dovessi dire cosa manca al territorio, direi una politica coordinata per arricchire e promuovere l’identità enogastronomica ed agrituristica del Cilento. È impensabile che Scario cresca da solo, anche se custodisce alcuni tra i più preziosi gioielli del Parco. E d’altro canto un potenziale punto di forza dell’area in cui è inserito, è il rapido susseguirsi di mare, collina e montagna, l’intreccio tra cucina di pesce e cucina di terra. Ma è impossibile metterlo a valore, pensare che ad esempio il turismo cresca per qualità e durata nell’arco dell’anno, se il Cilento (non questo o quel paese, questa o quella frazione) non diventa un marchio riconoscibile associato a valori culturali e ambientali positivi, come è stato ad esempio per il Salento nell’ultimo decennio.
Il Salento, va detto, ha beneficiato del ruolo trainante, sul piano culturale e politico, di Lecce. Da noi è oggettivamente più difficile. Servirebbe uno sforzo corale di tanti piccoli Comuni, meglio se federati in forma di Unione, i quali invece di distribuire vantaggi agli amici e dispetti agli antagonisti, attraverso la solita leva dei lavori pubblici e delle concessioni edilizie, si dessero una vera politica condivisa di promozione del Cilento in Italia e all’estero. E così torniamo al punto di partenza. Per produrre un bene collettivo complesso come l’immagine positiva del territorio, serve una notevole fiducia reciproca tra tutti gli attori in campo e una speciale disponibilità a cooperare. Qui sta il vero deficit del Sud.
Come ha visto cambiare il territorio?
Nel passaggio delle generazioni vedo delle aperture, anche grazie a esperienze, professionali e formative, sviluppate altrove. Mi pare che ci sia una maggiore consapevolezza del fatto che i problemi non si risolvono rimanendo chiusi nel proprio particolare.
Salvatore di fronte al senso religioso.
Da piccolo ho ricevuto una formazione cattolica abbastanza tradizionale. Negli anni della giovinezza, soprattutto grazie all’esperienza nella Fuci, lo sforzo di coltivare una visione più personale, critica e meditata mi ha permesso di mantenere aperti gli interrogativi di fondo connessi alla sfera religiosa che altrimenti forse si sarebbero inariditi o sarebbero stati ingenuamente archiviati. Sarà che la mia fede è incerta, o che è troppo esigente, ma di una cosa sono sicuro: che chi svolge un ruolo pubblico, tanto più se di rappresentanza politica, non dovrebbe darsi etichette religiose, impegnative al punto d’essere insostenibili se prese sul serio, offensive verso chi crede, se usate con leggerezza e strumentalmente per ottenere voti.
Salvatore ed il mistero della morte.
Quest’anno ci ho dovuto riflettere più intensamente che in passato a causa di lutti strazianti e inattesi che hanno riguardato parenti o amici strettissimi: un adulto ancora vitale, un mio coetaneo, un ragazzo poco più grande dei miei bambini. La morte davvero insostenibile è quella che sovverte l’ordine delle cose e sottrae ai genitori i figli. O ai figli ancora piccoli i genitori. Per il resto, comincio a considerarla con relativa serenità, per quanto rimanga un mistero inesplorabile e una cesura dolorosa che nemmeno la fede risolve del tutto, come lo stesso Vangelo forse riconosce quando ricorda le parole del Figlio che implora di allontanare da sé l’amaro calice e lamenta l’abbandono del Padre, un momento prima di spirare.