Risorse e riforme
Come ha scritto Salvatore Settis nell’articolo pubblicato dal Sole24Ore ieri, l’Università italiana soffre di due seri problemi strutturali: un livello di investimento complessivo tra i più bassi nell’area Ocse, una autonomia degli atenei degenerata in localismo.
Il rapporto 2008 dell’OCSE Education at a Glance ricorda che la spesa pubblica per l’istruzione superiore è stata nel 2005 in Italia pari allo 0,6% del Pil, quella privata pari allo 0,3%: decisamente sotto la media dei paesi censiti (1,1 + 0,4). Gli Stati Uniti, il cui sistema universitario è giustamente preso a modello dai riformatori italiani, investivano risorse pubbliche per l’1% del Pil, sommate ad un 1,9 conferito da soggetti privati. Pur in un momento di crisi economica, Obama promette consistenti risorse aggiuntive. Fa lo stesso la Francia di Sarkozy che ha deciso di considerare «l’insegnamento superiore e la ricerca la prima priorità di bilancio del governo, con un impegno supplementare di 1,8 miliardi di euro nel 2009, 2010 e 2011», «per fare della conoscenza il pilastro di una crescita duratura e dello sviluppo sociale». Un impegno accompagnato da 5 miliardi di investimenti per ammodernare 10 campus universitari.
Le risorse di cui dispone l’Università italiana sono insufficienti ma anche mal canalizzate. L’allocazione dei finanziamenti tra gli atenei è totalmente basato sulla spesa storica, senza riferimenti agli output; la spesa per il personale pesa troppo, quella per il diritto allo studio troppo poco; la remunerazione dei docenti è rigida, non ricompensa l’impegno e la qualità del lavoro inducendo i ricercatori più ambiziosi o più dotati a cercare riconoscimenti altrove; la composizione del corpo docente ha una struttura cilindrica anziché a piramide (ordinari, associati e ricercatori sono quasi in egual numero); meccanismi di selezione distorti tendono a generare conformismo e indolenza. Ma, ormai dovremmo saperlo, non è modificando le procedure di concorso che si riattivano comportamenti virtuosi. Tutte le possibili varianti sono state già tentate, compreso il sorteggio, senza sortire gli effetti astrattamente auspicati. Si tratta semmai, come ha spiegato la commissione Muraro, di ampliare l’autonomia degli atenei (e al loro interno di facoltà e dipartimenti) rendendo al tempo stesso molto più incisivi i meccanismi di valutazione ex post, facendone discendere una allocazione delle risorse basata sui servizi didattici offerti e sulla qualità della produzione scientifica misurata secondo standard internazionali. Solo così si possono sollecitare le strutture meno virtuose a rinnovarsi e consentire alle punte di eccellenza di acquisire maggiore reputazione fuori dai nostri confini.
All’università serve insomma una drastica cura meritocratica che porti in dieci anni ad allocare l’intero fondo statale in base all’output piuttosto che alla spesa storica. Ma serve anche, parallelamente, uno sforzo per allineare l’investimento complessivo ai livelli di paesi comparabili al nostro, ampliando, come si è iniziato a fare, soprattutto la spesa per borse di studio e per l’edilizia. Un investimento per il futuro utile anche a rilanciare, nel breve termine, l’economia reale in una fase di stagnazione. Riforme del genere richiedono un ampio consenso. D’altro canto in questo campo riformisti e conservatori non sono divisi secondo le tradizionali linee politiche. Di sicuro non è e non sarà il Pd a frenare riforme lungimiranti, inserite dentro un piano di medio termine, prevedibile nel suo svolgimento, che consenta alle università di adeguare, se ne sono capaci, i loro comportamenti.
Il governo fino ad ora ha fatto l’esatto contrario. Con il decreto ICI e la manovra di luglio, ha imposto un taglio lineare, identico per le università virtuose e quelle inefficienti, di dimensioni tali da mettere in ginocchio le une e le altre. In particolare, mentre l’intervento è modesto nel 2009 e nel 2011, per il 2010 implica una contrazione delle risorse statali del 10,6%. Considerando che una parte consistente dei trasferimenti coprono spese non comprimibili, anche le università più oculate dovrebbero quindi ridurre in un anno di circa il 50% le spese di funzionamento.
Se il decreto Gelmini costituisce il primo passo di una marcia indietro sui tagli a casaccio e l’inizio di una profonda, prevedibile e ragionata strategia di riforma deve essere salutato con favore. Per il momento si devono registrare segnali positivi misti a propaganda e improvvisazione. Basta dire che il decreto, “approvato” dal Consiglio dei Ministri il 6 novembre, è stato consegnato al Presidente della Repubblica per la firma, dopo ripetuti rimaneggiamenti, solo la sera del 10.
Con il decreto Tremonti di luglio il fondo per le borse di studio aveva subito una riduzione di 40,1 milioni di euro, quello per il sostegno alla mobilità dei giovani di 9,7 milioni. Ora il primo viene reintegrato, ma solo per il 2009, con 135 milioni di euro, per un investimento aggiuntivo, dunque, in realtà, di 85 milioni. Il Fondo per alloggi e residenze per gli studenti universitari che la finanziaria riduce di 12,5 milioni, viene reintegrato dal decreto Gelmini con 65 milioni (le risorse aggiuntive rispetto al 2008 sono quindi 52,5 milioni). Entrambe ottime scelte, che il PD aveva chiesto con emendamenti alla finanziaria solo due settimane fa, ricevendo allora un diniego. È del tutto condivisibile la decisione di inibire agli atenei che si sono già caricati di una spesa per stipendi superiore al consentito di mettere nuovi posti a concorso. L’ampliamento dei margini per il turnover e l’assunzione di nuovi ricercatori è un buon segno, ma i suoi effetti sono destinati ad essere meno incisivi di quanto e stato dato a vedere, per ragioni che ha spiegato sul Sole24Ore ieri Gianni Trovati (p. 21). Molto bene, infine, che si allochi una parte non piccola (il 7%) del fondo per le Università sulla base di indicatori dell’offerta didattica e della produzione scientifica. Il decreto è piuttosto vago in realtà sui metodi per misurare le performance didattiche mentre avrebbe potuto riferirsi ad un modello già formalizzato e approvato dalla CRUI nel 2004. È comunque una strada su occorre insistere, purché nel frattempo non vengano indebolite in misura esiziale anche le parti sane del malato che si vuole curare.