Consigli provinciali
Il c.d. decreto Salva-Italia ha previsto la trasformazione dei consigli provinciali in organi eletti in secondo grado dagli amministratori comunali. Si tratta di una scelta saggia, da me già proposta a partire dal 2009, quando questa posizione era assolutamente minoritaria in Parlamento e nel gruppo PD. Per renderla effettiva, è tuttavia necessario adottare una nuova legge elettorale. La proposta presentata dal governo ha però due seri difetti: in primo luogo, fa sì che pochi comuni di piccole dimensioni esprimano una rappresentanza nel consiglio provinciale di peso pari a quello di un comune di ampiezza metropolitana; in secondo luogo, rischia di dar vita a consigli regionali politicamente molto frammentati, privi di una chiara maggioranza a sostegno dell'esecutivo. La proposta di legge che ho appena presentato prova a risolvere tali problemi.
Di seguito la relazione dell’AC.5531. Qui la scheda del ddl. Qui il pdf.
Onorevoli Colleghi! — La presente proposta di legge disciplina la modalità di elezione in secondo grado degli organi delle province. Una scelta saggiamente adottata con recenti provvedimenti del Governo Monti e che il proponente ha da tempo avanzato, con i progetti di legge costituzionale atto Camera n. 2579, presentato il 2 luglio 2009, e atto Camera n. 4506, presentato il 13 luglio 2011.
È assolutamente necessario ora dare compiutezza al nuovo regime di elezione se non si vogliono assecondare le potenti pressioni che vorrebbero si tornasse indietro. Andare verso l'elezione di secondo grado è invece essenziale: è coerente con il nuovo profilo delle province e riduce non solo e non tanto i costi dei consigli, organismi oggi ipertrofici per lo più arena di dibattiti astratti, quanto quelli legati a un ciclo elettorale vissuto come test politico nazionale.
Il disegno di legge atto Camera n. 5210, presentato a questo fine dal Governo, presenta tuttavia alcuni profili problematici che rischiano di rallentare o di bloccare il processo decisionale. La presente proposta di legge ricalca dunque il disegno di legge del Governo, ma se ne discosta per tre aspetti.
In primo luogo, prova a risolvere un'incongruenza rilevata anche dai relatori in sede di avvio dell'esame presso la Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati. Appare infatti irragionevole che pochi comuni di minuscole dimensioni esprimano una rappresentanza nel consiglio provinciale di peso pari a quello di un comune di ampiezza metropolitana. Questo problema viene risolto prevedendo che gli elettori siano distinti in sezioni elettorali in ragione della classe demografica del comune di appartenenza. La tabella che segue, costruita a puro titolo esemplificativo, riporta, per ciascuna delle province attualmente esistenti, il numero di comuni e di seggi assegnati a ciascuna sezione.
In secondo luogo, si perfeziona il sistema elettorale in modo da mantenere il modello maggioritario attualmente vigente a tutti i livelli di governo regionale e locale, il quale ha garantito stabilità e chiara imputazione delle responsabilità. In assenza di tale correttivo la rappresentanza in consiglio rischia di essere frantumata in una miriade di soggetti. Si noti che la riduzione della composizione numerica dei consigli non attenua, ma semmai accentua, i poteri di veto messi in capo a singoli consiglieri, espressione di molteplici minoranze, ove il presidente non possa contare su una maggioranza che lo sostiene. Con il sistema elettorale puramente proporzionale proposto dal Governo potrebbe facilmente darsi il caso contrario, di un presidente eletto a cui si oppone una coalizione largamente maggioritaria in consiglio.
In terzo luogo, si rivedono alcune norme recentemente approvate per impulso del Governo riguardo alla natura e alla composizione dell'organo di governo delle province. Come il Ministro Patroni Griffi ha affermato nel corso della sua recente audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati, il decreto-legge cosiddetto «salva Italia» (decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011), aveva abolito le giunte e ricondotto la figura del presidente a una carica esercitata «nel tempo libero» ovvero in regime di cumulo di incarichi, perché aveva di fatto azzerato le funzioni delle province stesse. Successivamente, lo stesso Governo, con il decreto-legge cosiddetto «spending review», (decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012), ha tuttavia proposto all'articolo 17, comma 10, di riassegnare alle province funzioni in materia di pianificazione territoriale ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto pubblico, autorizzazione e controllo del trasporto privato, costruzione e gestione delle strade provinciali, programmazione della rete scolastica e gestione dell'edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado. Risulta quindi incongruo che l'unico organo di impulso e indirizzo politico sia costituito da un presidente che opera «nel fine settimana» nel caso si tratti di un sindaco. Per il mandato di sindaco metropolitano, una figura titolare di responsabilità maggiori del Presidente di provincia, il decreto sulla «spending review» (articolo 18 del citato decreto-legge n. 95 del 2012) prevede che esso sia svolto «a titolo esclusivamente onorifico», quindi nel tempo libero. Si tratta di una norma demagogica che va abrogata.
Il presentatore di questa proposta di legge è ben consapevole della necessità di operare tagli, anche consistenti, ai cosiddetti «costi della politica». Se ne è fatto promotore con altre puntuali iniziative, tra cui ad esempio la proposta di legge atto Camera n. 5501 sulle indennità parlamentari o la proposta di legge costituzionale atto Camera n. 4915 per il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari. Tuttavia, la scelta di privare le province, assottigliate nelle competenze ma ampliate nelle dimensioni, di organi effettivi di governo, non pare giustificabile sul piano istituzionale. Essa rischia di aumentare le inefficienze burocratiche, generando nuovi e diversi fenomeni di malcostume, verso i quali mancherebbe il controllo sociale diffuso dato dalla maggiore visibilità dei ruoli politici e dalla possibile sanzione elettorale.