Europa (22 luglio 2010) – In un momento in cui la crisi economica mette a repentaglio il benessere di tante famiglie, il governo attenta alla libertà dell’informazione e la questione morale dilaga anche in settori inattesi della società italiana, può apparire fuori luogo occuparsi di democrazia e religioni. Ma è anche, se non proprio questa, la funzione di una scuola come Democratica. Di invitare a riflettere su temi o fenomeni che pur non appartenendo alla cronaca quotidiana contrassegnano l’epoca che stiamo vivendo, richiedono lenti adeguate e l’elaborazione di una prospettiva, di un punto di vista da spendere nel dibattito pubblico e nell’azione politica.
Che la religione sia tornata ad essere, nel bene e nel male, un motore della vita pubblica è ormai quasi un luogo comune. Lungi dall’apparire un fenomeno transitorio, destinato ad essere eroso dalla modernizzazione, come aveva predetto una abbondante letteratura europea, è tornata al centro della scena.
In particolare dopo l’11 settembre e la diffusione degli attacchi del terrorismo internazionale, è cresciuto l’interesse per la religione quale fonte di conflitto. Un interesse acuito dalle analisi che avevano prefigurato un incipiente scontro di civiltà fornendo così una interpretazione dell’integralismo islamico e, nelle mani della destra radicale americana, una giustificazione della guerra preventiva. La stessa destra radicale che già aveva fatto largo uso a fini di politica interna della religione come elemento identitario e collante ideologico.
Da qui, sull’onda di un successo elettorale effimero, non sono mancate anche da noi conversioni a dir poco stupefacenti e tentativi ricorrenti di un medesimo uso politico della fede vista come un principio d’ordine, un veicolo di consenso, un supplemento d’anima e una barriera contro il rischio di “contaminazioni”. Secondo le parole, a dire il vero un po’ sbilenche, di un celebrato teorico di questa posizione, «l’inclusione degli “altri” in Europa può proseguire, […] solo se gli “altri” cessano di essere “altri” e diventano “noi”. Quindi: o sono gli “altri” che rinunciano alla loro identità, venendo in Europa, o è l’Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte incontro alla sue disintegrazione. […] Il mondo non è governato solo dal bene ma anche dal male: “i primi cristiani sapevano bene che il mondo è governato dai demoni” (Weber). Se è così, niente è più moralmente indifferente. Dio, il bene, il male, l’onore, la gerarchia, il significato della vita, la modestia e l’orgoglio non possono scomparire. Per questo dobbiamo reintrodurli nel nostro codice identitario. Niente infatti in Europa può più avere un contenuto etico e politico, al di fuori del nostro storico sistema di valori identitari» (Giulio Tremonti, La paura e la speranza, pp. 78-79).
Non stupisce affatto, quindi, che il pregiudizio e il sospetto tra le religioni vada crescendo. Ad esempio, secondo i dati della ricerca Religion and Prejudice in Europe, appena pubblicata dal Network of European Foundations, la percentuale di popolazione tedesca che concorda «in qualche modo» o «fortemente» con la frase «l’immigrazione in Germania andrebbe proibita per i musulmani» è passata dal 26.5 per cento del 2003 al 29 per cento del 2007. Più dei due terzi dei cittadini europei, dissente «abbastanza » o «molto» circa la possibilità che la cultura musulmana si possa «inserire» bene nel proprio paese; mentre il 54,4 per cento percepisce l’Islam come una religione intollerante.
Allo stesso modo in Europa continua a crescere anche l’anti-semitismo. Secondo i dati dello European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia il 38,1 per cento degli europei non è d’accordo (molto più abbastanza) con l’idea che gli ebrei contribuiscano ad arricchire la cultura del proprio paese, e quasi un quarto degli europei ancora condivide l’antico atteggiamento anti-semita secondo il quale gli ebrei avrebbero troppa influenza nel paese.
A Bertinoro vogliamo riflettere sui rischi di questo approccio e sulle opportunità offerte da una diversa prospettiva. Non c’è dubbio, ad esempio, che una lezione assai più matura e feconda sul possibile ruolo pubblico della religione, sul suo possibile contributo alla vita civile, nel rispetto dei diritti individuali e dei principi democratici venga ancora una volta d’oltreoceano, dall’accurata preparazione sul piano culturale e dallo svolgimento della presidenza Obama. Una lezione che per vari aspetti sfida la tradizionale netta separazione tra fede e politica propria tanto della cultura dei cattolici democratici italiani quanto dei democratici cattolici americani come Kennedy, Cuomo o Kerry.
I punti fermi di questa riflessione sono pochi ma ben chiari. La difesa della nostra “civiltà” passa innanzitutto attraverso la tutela dei principi inscritti in diverse carte internazionali dei diritti e nella nostra Costituzione, tra i quali brilla la garanzia del pluralismo religioso per tutti e della libertà di espressione della propria fede, della scelta di credere e di non credere, di professare il proprio credo attraverso lo studio, la preghiera individuale, la pratica comunitaria, l’osservanza dei precetti, ed anche il proselitismo rispettoso della libertà altrui.
Proprio per questa ragione, la “civiltà” occidentale, se rimane fedele a se stessa, può diventare il terreno sul quale tutte le religioni possono/devono apprendere la grammatica fondamentale dei diritti individuali e della democrazia. Se abbiamo abbastanza fiducia in noi stessi, come europei abbiamo un interesse a favorire la modernizzazione della cultura islamica nel confronto con la nostra civiltà giuridica, non ad alimentare il pregiudizio e l’odio reciproco. Dobbiamo anche ripensare la laicità, che non può essere una ideologia. È l’unico metodo attraverso cui credenti in diverse fedi e non credenti possono discutere insieme per affrontare problemi eticamente controversi. Sapendo che non tutto può essere risolto sulla base di una discussione razionale. Sapendo che un nucleo di posizioni non negoziabili rimarrà oggetto di contrapposizioni talvolta anche aspre che non possiamo tuttavia eludere.