Dopo Veltroni. Tempo scaduto
La settimana, non solo quella, è stata scombussolata dalle dimissioni di Walter Veltroni. Con un gesto assolutamente inusuale per la politica italiana, si è fatto da parte. Assumendosi anche responsabilità non sue e traendone conclusioni di un rigore esemplare, ha messo tutti gli altri di fronte alle loro, a cominciare da chi ha logorato il PD, dall’interno, sin dall’inizio. Ci ha richiamato tutti alla responsabilità verso il progetto di quel partito aperto, riformista, plurale che ha provato a farci immaginare, senza il quale non saremo mai in grado di costruire una alternativa credibile a questa destra indecente e dare una speranza all’Italia.
Il momento della verità è arrivato. Il tempo per le ipocrisie è stato consumato tutto. Veltroni con il suo gesto lo ha messo definitivamente a nudo. Ora i dirigenti che il centrosinistra ha ereditato dalla Prima Repubblica devono dire, ciascuno per suo conto, non nascosti dietro un unanimismo di facciata, se hanno davvero il coraggio e la lungimiranza per dare corpo al Partito Democratico che abbiamo raccontato agli italiani, il partito delle primarie, riformista e plurale. Oppure se preferiscono tornare indietro.
Nelle scorse settimane Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, proponendosi in alternativa a Veltroni, hanno disegnato i tratti di un classico, rispettabile, partito socialdemocratico: ancorato senza altra specificazione alla famiglia socialista europea, collegato alle tradizionali realtà sindacali ed economiche della sinistra post-comunista, che tende ad esasperare piuttosto che a ricucire intorno a ragionevoli sintesi il confronto sui temi eticamente sensibili, un partito che fa le primarie quando i “dirigenti” sono d’accordo e le evita se i “dirigenti” sono contrari. Ma un PD che si trasformi in una copia invecchiata del Pds diventa inospitale per molti democratici, e si ritorna ineluttabilmente allo schema del centro-sinistra con tanti trattini (Prc-Pds-Asinello-Ppi-Idv-ecc-ecc), come dieci anni fa, dopo la crisi del primo governo Prodi e la costituzione del governo D’Alema. Uno schema che ridarebbe a ciascuno degli antichi protagonisti il ruolo a cui anela, dieci anni dopo, con una forza elettorale e una credibilità decisamente minori.
In questo quadro, domani l’Assemblea Nazionale dovrà decidere se procedere all’elezione del nuovo segretario con un mandato breve, che duri fino ad ottobre, oppure se decretare il proprio scioglimento anticipato e convocare le primarie per la fine di aprile. Lo Statuto (art. 3, comma 2), più previdente e meno complicato di quanto si dica, consente entrambe le soluzioni.
I componenti dell’assemblea dovranno decidere se ha più senso andare alle elezioni europee con un leader, una linea, una visione definita del PD, a rischio di mettere sotto tensione o spaccare irrimediabilmente un partito già dilaniato, oppure prendere atto di una soluzione temporanea, largamente condivisa dall’attuale gruppo dirigente, che rinvia i problemi già noti da tempo e messi in evidenza, da ultimo, dalla candidatura di Pier Luigi Bersani e dalle dimissioni di Walter Veltroni. La scelta non è affatto semplice.
Ma prima ancora è venuto forse il momento di chiedersi cosa si possa fare di una classe dirigente che nel quotidiano reciproco logorio, pur di continuare a tutti i costi ad “esserci”, ha reso impossibile la realizzazione del partito nuovo e ha dissestato anche la strada per tornare indietro.