Il Pd di Barca. Tra Pci e M5S
I cardini della “teoria” di Barca sul “partito nuovo” sono due.
1) «Serve un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello Stato, ma anche “sfidante dello Stato stesso” attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica. Serve un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle “avanguardie”, ossia realizzando una diffusa “mobilitazione cognitiva”».
2) Per essere più credibile ed efficace come “sfidante”, «il partito nuovo sarà rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, riducendo ancora il finanziamento pubblico e soprattutto cambiandone e rendendone trasparente metodo di raccolta e impiego, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo, sia organizzandosi in modo da attrarre il contributo di lavoro (volontario o remunerato) di persone di buona volontà per periodi limitati di tempo, sia stabilendo regole severe per scongiurare ogni influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente».
Ne viene fuori (e si intravede, come modello implicito) un ardito ibrido tra il Pci e il Movimento 5 Stelle, due forze politiche in fondo accomunate dall’idea che “il partito” debba “sfidare lo Stato”, e non invece assumersi la piena responsabilità – di fronte agli elettori, e sulla base del loro mandato – di governare. Per altri versi fa venire in mente la fantasiosa narrazione che si diffuse in vista del Congresso del 2009 secondo cui la Lega stava crescendo anche nella zona rossa grazie a una presenza organizzativa simile a quella che un tempo era stata del Pci, e dunque bisognava imitarla, per tornare agli antichi splendori.
La chiave della sua “teoria” sta in un termine che Barca usa in modo non convenzionale. Per la comunità scientifica (e per i politologi italiani che la frequentano) la “mobilitazione cognitiva” non è una tecnica o una modalità di partecipazione. A partire dagli studi di Ronald Inglehart e Russel Dalton, è definita come un processo di arricchimento/modernizzazione della cultura politica prodotto dalla diffusione del benessere, delle informazioni, delle conoscenze, dalla crescita delle aspettative, oltre che dalla moltiplicazione delle fonti attraverso cui le conoscenze sono diffuse e le opinioni si formano. Un processo che rende gli individui più indipendenti, ben disposti a partecipare ma meno identificati con uno specifico partito. Anzi, più inclini a muoversi da un partito all’altro.
Nel lessico di Barca, preso a prestito da Marco Revelli, la “mobilitazione cognitiva” diventa invece una pratica militante per la formazione collettiva delle opinioni, per la scelta della linea politica e la selezione dei dirigenti. Una sistema di meet up permanenti “strutturati e radicati nel territorio”, in pratica di sezioni, attraverso cui si definisce (e quindi si restringe) il perimetro di chi è dentro rispetto “agli altri” e si produce un “pensiero unitario”. Una traduzione grillina del partito come “intellettuale collettivo”.
Al punto che Barca alla fine si chiede non “se”, ma «come offrire davvero ai giovani le opportunità di impegno cognitivo prima descritte, avendo come luogo di riferimento primario i circoli territoriali; […] come favorire e tutelare la partecipazione alla mobilitazione cognitiva di individui e associazioni che non condividono i convincimenti generali del partito (gli “altri”) e vogliono mantenere la propria piena indipendenza […]; come assicurare che l’iscrizione e i diritti che ne derivano in termini di partecipazione alle scelte e alla selezione dei gruppi dirigenti siano vincolati all’effettiva partecipazione ai processi di mobilitazione cognitiva».
Ad essere onesto, trovo l’ultima proposizione “goffa e coraggiosa”: gli iscritti dovrebbero certificare una “effettiva partecipazione ai processi di mobilitazione cognitiva” per esercitare i loro diritti (!?). Volendo, lo è anche nell’accezione positiva dei due aggettivi ricordata da Mario Lavia, dunque Barca dovrebbe andarne fiero. Di sicuro è un perno della sua “teoria” del “Partito nuovo”.
La quale parte da presupposti molto diversi da quelli posti a fondamento del PD, quando è nato: a) che oggi ci sia una grande disponibilità a partecipare e ad esprimere la propria opinione da parte di cittadini che, per fortuna, se la formano in tanti luoghi e modi diversi dalle sezioni di partito; b) che quindi i confini tra chi è dentro e “gli altri” vanno azzerati, con le primarie, un momento nel quale si confrontano, al tempo stesso, candidati e orientamenti politici; c) che il PD si pone a servizio degli elettori per offrire un governo riformista al Paese e dunque, attraverso il suo leader e gli eletti nelle sue liste, se ne assume pienamente la responsabilità.
Sia chiaro, è giusta la richiesta di rendere incompatibili i ruoli di «funzionario o quadro» alle dipendenze del partito con i ruoli elettivi o di governo, così come l’invito a stabilire «regole severe per scongiurare ogni influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente». Purché questo non voglia dire che «funzionari e quadri del partito» debbano tornare a «dettare la linea» agli eletti o ai nominati. Semmai il loro compito è predisporre quelle forme di partecipazione che consentono ai cittadini di scegliere i candidati e impongono a questi ultimi di rendere conto.
[Pubblicato su Europa]