Il riformismo di Macron
L’imprevista ascesa di Emmanuel Macron alla guida della Francia è frutto di una speciale combinazione di intuito, determinazione, audacia e fortuna che lo rendono oggi credibile protagonista di un ambizioso progetto di rilancio del suo Paese e dell’Europa. Il libro appena uscito a cura di Riccardo Brizzi e Marc Lazar (La Francia di Macron, Il Mulino) di cui abbiamo discusso ieri a Bologna con gli autori, spiega molto bene con quali idee e con quali consensi ha vinto, come ci sia riuscito, quale stile ci si può aspettare dalla sua presidenza e quale disegno proverà a perseguire nella scena internazionale.
Quando, tra il 2015 e il 2016, dimostrò di coltivare l’ambizione presidenziale in pochi lo presero sul serio. Anche chi lo considerava un politico promettente era scettico sul risultato. Lui intuì invece che si stava creando lo spazio per una candidatura riformista, fuori dagli schemi tradizionali, tra la sinistra e il centro, capace di parlare anche a liberali di centrodestra delusi dai Repubblicani, andando contro la corrente populista con un programma ragionato di riforme per la società aperta. L’esperimento del “Pd di Renzi” fu allora fonte di ispirazione. Lo dice chi gli ha parlato ed a cui Macron chiedeva informazioni su quanto stava accadendo nel nostro Paese, e lo dicono intere parti del suo programma. Le divisioni, gli errori e i fallimenti dei suoi vari antagonisti, a sinistra e a destra, lo hanno poi enormemente aiutato e le istituzioni della V Repubblica (l’elezione diretta del presidente e il doppio turno di collegio per l’elezione dei parlamentari) hanno fatto il resto.
Cosicché oggi ha davanti almeno tre anni buoni nei quali potrà provare a fare quanto ha promesso, sostenuto da una maggioranza parlamentare solida, con opposizioni ancora divise, un’opinione pubblica interna che non lo ha abbandonato e una crescente reputazione internazionale. D’altro canto, le ragioni del suo momento non sono solo interne. Con il Cancelliere tedesco in cerca di una maggioranza, la Gran Bretagna fuori dall’Europa, l’Italia ritornata in balia di risultati elettorali potenzialmente indeterminati e quella che fu la «guida del mondo libero» nelle mani di Donald Trump, l’inquilino dell’Eliseo appare oggi la voce più chiara e più forte delle democrazie occidentali.
In vari interventi, ha già spiegato come intende usare queste opportunità.
Verso la presidenza americana era apparso all’inizio accondiscendente, soprattutto per l’invito a Trump e l’accoglienza rispettosissima in occasione delle celebrazioni del 14 luglio a Parigi, viste a ragione come un rilancio del legame atlantico. Ma in almeno tre importanti occasioni, subito dopo, Macron non ha mancato di prendere le distanze segnando con enfasi la differenza tra i due approcci. Ha criticato senza mezzi termini la disdetta da parte di Trump dell’accordo costruito dall’amministrazione Obama sulle armi nucleari con l’Iran (senza che questo del resto sia stato sufficiente ad alleggerire le tensioni tra l’Iran e la Francia). Ha ovviamente criticato la rinuncia da parte del presidente americano a partecipare al vertice di Parigi sull’ambiente. Non ha assecondato e giudicato un errore la scelta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
È evidente che una seconda linea qualificante della sua azione in campo internazionale sarà rappresentata da una speciale attenzione allo sviluppo dell’Africa, e alla tutela degli interessi francesi nel continente. Lo si vede nella proposta di rigirare tutti gli introiti derivanti dalla tassazione delle transazioni finanziarie alla prima missione, e lo si è visto – per dirla tutta – anche nelle dichiarazioni non preventivamente concordate con l’Italia riguardo alla gestione della crisi dei rifugiati in Libia.
La principale scommessa della sua presidenza sta comunque nel discorso tenuto alla Sorbona a fine settembre sulle sei chiavi per rifondare la sovranità europea: rafforzando la sicurezza comune contro gli attacchi terroristici; sviluppando strumenti di difesa comune accanto a quelli della Nato; approfondendo il partenariato con l’Africa (appunto), per aiutare il continente a crescere e prevenire l’impatto di flussi migratori squilibrati; promuovendo la transizione ecologica con una particolare attenzione anche alla tenuta della filiera agro-alimentare interna rispetto ai «capricci dei mercati mondiali»; creando investimenti anche pubblici nella ricerca sul digitale per attrarre campioni mondiali del settore; proteggendo le nostre economie attraverso una moneta unica forte, un bilancio comune reso più robusto dalla tassazione delle imprese del web e da un ministro delle finanze europeo.
Non c’è dubbio, insomma, che la presidenza francese potrà avere nei prossimi anni un ruolo determinante e che oggi può apparire a molti come la guida più illuminata di cui l’occidente dispone. Ma per quanto Macron sia capace di rievocare la grandeur, la Francia rimane troppo piccola per governare il mondo. E nella dinamica inter-governativa che regola le decisioni dell’Unione Europea, le proposte del presidente francese, onnipotente in casa sua, possono essere sconfitte (ad esempio sulla tassazione delle multinazionali del web) dal veto di paesi minuscoli come Malta o l’Irlanda. Senza un governo europeista stabile in Germania, il motore non può ripartire. E senza un governo europeista stabile in Italia, rischia di incepparsi alla prima salita.