La grande coalizione e le larghe intese
In Germania la politica, come altri campi, è fatta di comportamenti prevedibili e regole semplici. I partiti devono garantire la stabilità possibile. Dopo le elezioni devono prendere atto del risultato e trovare la combinazione parlamentare più efficiente. Il Cancelliere è il leader del primo partito. Su questo non si discute. La coalizione di governo si costruisce con i partner strettamente necessari per arrivare alla maggioranza. Con quelli politicamente più vicini, capaci di concordare fino all’ultimo dettaglio su un programma di legislatura e, solo dopo, sulla ripartizione degli incaricato ichi ministeriali. Ci si prende il tempo che serve, ma di solito alla fine una buona soluzione si trova.
Ci possiamo aspettare qualcosa del genere in Italia dopo il 4 marzo? Sì e no. Mancano da noi sia una radicata cultura della stabilità sia l’atteggiamento al tempo stesso rigoroso e pragmatico che portano al patto di legislatura tra diversi. L’assenza di queste virtù è però parzialmente surrogata dalla malavoglia dei parlamentari appena eletti di tornare al voto, proprio dopo essere stati miracolati nella giostra della formazione delle liste o nella lotteria dei quozienti frazionari.
Per questa ragione, se le intenzioni di voto registrate dai sondaggi si trasferissero tali e quali nelle urne, il governo verrebbe formato con tutta probabilità dal centrodestra nella stessa formazione presentata agli elettori. Non è strettamente necessario che raggiunga la maggioranza assoluta dei seggi. È sufficiente che ci si avvicini, perché anche in quel caso sarebbe per un verso politicamente inspiegabile una rottura del sodalizio e per un altro verso troppo facile reclutare qualche parlamentare qua e là.
Ma se invece i sondaggi fossero sbagliati o la campagna spostasse l’equilibrio anche solo di tre punti percentuali, la struttura del gioco parlamentare cambierebbe completamente. Alla coalizione elettorale costruita da Berlusconi servirebbe una protesi troppo vistosa per formare il governo e la colla che la tiene insieme risulterebbe insufficiente. Il leader del Pd (o dei 5 Stelle) potrebbe ritrovarsi invece a capo del più grande gruppo parlamentare e quindi in condizione di giocare da pivot la partita delle alleanze.
In fondo sembra che a questo si riferisca implicitamente Renzi quando pone come asticella del successo del Pd non più il suo ritorno a Palazzo Chigi o la conquista della maggioranza ma il fatto che il Pd resti perno o almeno parte del Governo.
Il discrimine che a quel punto diventerà cruciale riguarderà l’atteggiamento da tenere, da parte dell’Italia, verso l’asse Merkel-Macron per il rilancio in chiave pro-crescita dell’UE. E non c’è dubbio che con un ministro socialdemocratico delle finanze al posto del profeta inflessibile dell’austerità Schäuble, e con Schulz agli esteri, la prospettiva di un allineamento franco-tedesco diventa molto più solida.
La campagna elettorale sta spingendo per ora Berlusconi a stare il più possibile incollato a Matteo Salvini. Tanto sull’immigrazione, quanto sull’Europa, come ci dice l’analisi dei programmi del Cattaneo riportata ieri da QN. Ma dopo le elezioni si vedrà. Una cosa però è certa. Se si dovesse andare veramente a un governo di larghe intese i politici italiani dovranno prendere lezioni per diverse altre cose, a cominciare dalla definizione del programma, dai tedeschi.
* Pubblicato l’8 feb 2018 su QN – Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno)