La manovra e le province
[Mio intervento sul «Corriere di Bologna» di giovedì 1° settembre]. Il barcollante percorso del governo nella definizione della manovra si è arricchito tre giorni fa di un nuovo capitolo, già in corso di riscrittura. Il 3 agosto alla Camera Berlusconi aveva detto che andava tutto bene. Due giorni dopo si è accorto che era necessario un drastico aggiustamento dei conti pubblici. L’11 agosto siamo stati convocati in sessione straordinaria delle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali per ascoltare dichiarazioni evanescenti del Ministro Tremonti. Ora siamo già alla correzione della correzione della seconda manovra correttiva. Che continua ad essere socialmente iniqua e largamente insufficiente sul piano finanziario. Ma Lo zig-zag, costosissimo per la reputazione già logorata del nostro Paese, stavolta ha consegnato un paio di buone intenzioni: il dimezzamento dei parlamentari e la regionalizzazione delle province. Due obiettivi per cui, per quel poco che conta, personalmente mi spendo alla Camera da parecchi mesi, tenendo posizioni parzialmente difformi dal gruppo a cui appartengo.
La cosiddetta “soppressione delle Province” potrebbe incidere anche sul percorso di cui si discute animosamente da settimane a Bologna in vista della creazione della Città Metropolitana. Per ora però lo si può solo intuire, interpretando le due righe scritte al riguardo nel comunicato del Governo che così recitano: «soppressione delle province quali enti statali e conferimento alle regioni delle relative competenze ordinamentali». Sulla base del dibattito svolto sinora in Commissione Affari costituzionali sono indotto a pensare che con ciò si voglia intendere più o meno: le Province diventano enti di decentramento regionale, non più coperte da garanzia costituzionale quanto a funzioni e finanza proprie, le Regioni possono (non devono necessariamente) istituirle, assumendo anche la potestà di disegnarne la forma di governo. Se fosse così, e se fosse fissata una soglia dimensionale elevata sotto la quale l’istituzione delle province (o simili) è radicalmente inibita, ci metterei la firma, avendo depositato in luglio un progetto di legge costituzionale (figlio di una precedente proposta del 2009) che va nella stessa direzione.
Se passasse questa linea, potrebbero forse venire meno le ragioni che oggi a mio avviso giustificano le perplessità manifestate da Beatrice Draghetti riguardo al “progetto Merola”. Premetto un assunto che presumo assennato e che però non mi pare ancora soddisfatto. Ha senso ricominciare a tessere la trama della Città Metropolitana, finora e da trent’anni tela di Penolope del dibattito pubblico bolognese, se si è in condizione di promettere credibilemente che questo nuovo ente eserciterà funzioni di governo più ampie e incisive dell’attuale Provincia, sottraendone di rilevanti sia ai Comuni che alla Regione, e dotando così il territorio di un attore pubblico capace di guardare più lontano, sia in termini geografici che temporali. Da qui il primo dubbio: come si concilia la posizione oggi prevalente nel PD che vorrebbe mantenere le Province quali enti di primo grado con l’ipotesi di una Città Metropolitana priva di una qualsiasi legittimazione popolare diretta? Quale equilibrio avrebbe un sistema regionale in cui tutte le altre province hanno Presidenti eletti e a tempo pieno mentre il capoluogo ha un Presidente part-time, per più della metà Sindaco, nominato dalla tavola rotonda dei suoi pari? Difficile pensare che si possano esercitare funzioni di governo più forti con meno tempo e una legittimazione politica più debole. Semmai dovrebbe essere il contrario. Le “province ordinarie”, regionalizzate e alleggerite di funzioni regolative, potrebbero essere tranquillamente governate da una tavola rotonda. Non così una vera Autorità Metropolitana. Per questa va benissimo che l’assemblea dei sindaci sostituisca il consiglio provinciale. Ma allora sarebbe necessario un surplus di legittimazione personale del Presidente, nel quadro di una forma di governo in senso tecnico “presidenziale”, se non si vuole che, invece di guardare più in alto e più lontano, sia fagocitato da accordi al ribasso dallo sguardo corto.