La scelta di Theresa
Theresa May ha deciso. L’8 giugno i sudditi di sua maestà Elisabetta II vanno al voto. Entro luglio, dopo Francia e Germania, anche la Gran Bretagna avrà un governo con un mandato lungo abbastanza da poter gestire l’intero percorso che porterà a compimento la Brexit.
Può considerarla una «forzatura istituzionale» solo chi aveva pensato che in UK potesse davvero venire meno il potere di scioglimento discrezionale del premier. Il Fixed-term Parliaments Act del 2011 lo rende solo un poco più complicato, imponendo un voto dei due terzi dei deputati, che arriverà quasi certamente mercoledì. Neppure i partiti che considerano la scelta della May opportunistica e faranno campagna su questo possono dichiararsi contrari ad ascoltare la voce degli elettori, non essendo in condizione di dare vita ad un governo alternativo.
La mossa è stata improvvisa ma non era imprevedibile. Dietro all’enorme vantaggio nei sondaggi rispetto ai laburisti (venti punti percentuali) c’è una condizione strutturalmente favorevole per i conservatori. L’uscita di scena di Farage e il loro posizionamento in scia all’esito referendario ha riallineato dietro ai Tories guidati dalla nuova dama di ferro quasi tutti gli elettori dello Ukip, che comunque alle parlamentari non riusciva a prendere seggi. Sommati, conservatori tradizionali e isolazionisti, formano un blocco imbattibile in Inghilterra, dove si eleggono 533 dei 650 componenti della Camera dei Comuni. Poco importa, quindi, se in Scozia il partito di Nicola Surgeon prenderà tutto, come nel 2015, o se in Galles e Irlanda del Nord qualcosa andrà agli altri indipendentisti. Con i laburisti nell’angolo grazie a Corbyn, i liberaldemocratici possono guadagnare qualcosa, presentandosi come i più credibili interpreti di una uscita soft dall’Europa, ma nessuno dei due partiti da solo è competitivo.
Nella dichiarazione in contropiede con cui ha dato la notizia, la May ha avuto gioco facile a fissare il senso della sfida e le alternative, pro domo suo: laburisti, liberaldemocratici, nazionalisti scozzesi e membri non elettivi della camera dei lord si mettono di traverso in parlamento, come se non avessero perso il referendum; le elezioni decideranno tra una leadership forte (la sua) a capo di un governo monopartitico capace di guidare con mano forte l’uscita negoziandola alle migliori condizioni, e la leadership instabile di Corbyn a capo di un governo di coalizione.
I suoi vari oppositori potrebbero farcela, in teoria, se fossero capaci di unificare l’elettorato europeista, più istruito, delle aree metropolitane. O se fossero capaci di dividersi strategicamente i collegi. Cose che ad oggi paiono improbabili. C’è da scommettere che durante la campagna elettorale si dibatterà intorno a concetti evocativi come hard e soft Brexit. Tutti prometteranno un’uscita che garantisca esattamente gli stessi benefici dell’adesione. Ma le alternative poste agli elettori, la struttura della competizione e il risultato paiono largamente pregiudicati. Né può venire fuori un paese ancora più diviso sul piano territoriale, all’interno, e ancora più distante dall’Europa.
Ci potrà non piacere l’equilibrio che le elezioni registreranno o la direzione che prenderà il Regno Unito. È un fatto che i cittadini britannici potranno scegliere e il loro voto avrà un peso. Ma se le cose a Londra dovessero andare come oggi pare più probabile, sara ancora più essenziale che nel frattempo si siano insediati governi dotati della medesima solidità e di altrettanta determinazione, sperabilmente con una prospettiva diversa, in Francia e Germania, dove è possibile. E che anche in Italia in molti capiscano quanto è alta la posta in gioco.
(*) Pubblicato su l’Unità