Né scissioni né accomodamenti
Nell’attesa che si sciolgano i nodi su Quirinale e Palazzo Chigi, il vuoto di notizie alimenta due tesi solo apparentemente opposte riguardo al futuro del PD: 1) che sia inevitabile o addirittura da auspicare una scissione; 2) che, per evitarla, si dovrebbero scindere i ruoli di segretario e candidato premier, assegnandoli a persone che parlano, ciascuno con il suo linguaggio, a due pubblici diversi. Sullo sfondo, rimane la più deprecabile delle tentazioni. Quella di rinviare sine die, in spregio alla più fondamentale delle regole di ogni organizzazione democratica, la data del “Congresso”. Cioè, secondo le nostre regole, lo svolgimento di “primarie” totalmente aperte a tutti gli elettori per selezionare la linea politica, il leader e gli organismi dirigenti. Il metodo che abbiamo scelto quando è nato il PD, che abbiamo usato nel 2007 e nel 2009, che è scritto nello statuto e che è stato considerato, da chi ha vinto e da chi ha perso, l’unico modo serio per rimanere uniti.
Lo ha ripetuto Dario Franceschini in una recente intervista: «Ognuno si morda la lingua e si metta in testa che il Partito democratico deve restare unito e stringersi attorno a chiunque vinca le primarie, quando ci saranno». Di questa affermazione è il «quando ci saranno» che inquieta. Lo statuto del PD «impone» senza ombra di dubbio a Rosi Bindi, in quanto presidente dell’assemblea nazionale, di stabilire la data entro il 25 aprile. Sarebbe del tutto sensato sforare questo termine di qualche giorno, per capire se la XVII legislatura ha una aspettativa di vita superiore al prossimo capodanno. Ma non appena questa incertezza sarà stata risolta, diventerà, oltre che statutariamente dovuto, politicamente necessario, convocare le primarie/congresso: alla scadenza più ovvia (ottobre, come nel 2007 e nel 2009) oppure a giugno, se c’è il rischio di elezioni in autunno.
Se così andranno le cose, è abbastanza certo che i venti scissionisti perderanno forza, mentre si intensificheranno le pressioni per l’accomodamento, per una divisione del lavoro tra leader di partito e di governo. Si tratta di una ipotesi insidiosa, perché a prima vista risultadi buon senso. Ma se solo si riflette sulle sue implicazioni si capisce che non sta in piedi.
Mettiamo pure da parte le questioni procedurali: per praticarla bisognerebbe riscrivere completamente la “costituzione” del PD, con un voto a maggioranza assoluta dell’assemblea nazionale, prima che la Bindi assolva al suo dovere. Se facciamo finta che questo non esista, rimangono almeno tre altri problemi.
Primo: un congresso del PD in cui Matteo Renzi non fosse candidato alla guida del partito in aperta concorrenza con chi vuole “far girare la ruota” lungo la rotta tracciata da Bersani sarebbe una beffa per gli iscritti e per gli elettori. Chiunque capirebbe che non è quella la vera competizione sulla linea e sulla leadership. Secondo: in assenza di una sfida aperta e vera per la leadership, capace di mobilitare una platea più ampia degli aficionados, le primarie/congresso si ridurrebbero a una mera conta tra capi-corrente, vecchi e giovani, rispettati e presunti. Se poi, in qualche altra forma – difficile da giustificare, considerando che le elezioni anticipate potrebbero arrivare in fretta – si dovesse scegliere un diverso candidato del PD per Palazzo Chigi, ci sarebbe un terzo problema, ancora più grosso. Avremmo un partito bicefalo, mentre nessuno dei dilemmi, politici e organizzativi, che oggi rischiano di dividerci sarebbe stato risolto. Il candidato a Primo Ministro si dovrebbe presentare davanti agli elettori azzoppato in partenza, dovrebbe poi svolgere il mandato guardandosi le spalle o negoziando ogni passo.
D’altro canto, un leader di partito forte, pienamente legittimato, in grado di candidarsi con buone chance di successo a guidare il governo, non sarebbe costretto a svolgere il ruolo di segretario nei termini tradizionali. Potrebbe delegare le funzioni organizzative a uno o più fiduciari. Se vince le elezioni e va a Palazzo Chigi, non avrebbe nemmeno bisogno di costituire una segreteria come quella attuale. In un partito aperto, con una chiara vocazione ad assumersi la responsabilità di governare, i dirigenti di settore (o i segretari di federazione) non servono per dare istruzioni agli eletti, ma per promuovere la partecipazione degli iscritti e degli elettori. Un nuovo modello organizzativo potrebbe richiedere modifiche statutarie, ma a tempo debito. Certamente dovrà dare seguito all’impegno di alleggerire il peso, oltre al costo, delle burocrazie interne. E pure a questo fine, il partito bicefalo è un controsenso.