L’articolo di Paolo Franchi pubblicato lunedì 27 ottobre dal Corriere coglie molto bene a mio avviso la cifra della manifestazione tenuta dal PD sabato a Roma. La dimostrazione di vitalità data al Circo Massimo, coincidendo con la fine della luna di miele del governo Berlusconi, ha ristabilito un certo equilibrio nella vita politica, necessario per la dialettica democratica del giorno per giorno, ma non dice solo questo.
Tra maggio e settembre il governo è parso straordinariamente abile nel costruire consenso, sia con interventi che, giusti o sbagliati, hanno incontrato il favore dell’opinione pubblica (la lotta ai fannulloni, il ritorno del voto in condotta), sia con scelte molto apprezzate dall’establishment economico (tagli drastici alle amministrazioni pubbliche, generosi interventi per salvare grande aziende nazionali in crisi). In tutti i casi ostentando capacità di decisione anche in spregio alle “liturgie” parlamentari e al ruolo dell’opposizione. In questo quadro c’era il rischio che il PD, per farsi sentire, per nascondere divisioni interne e un certo spaesamento post-elettorale, cominciasse a rincorrere i toni di Piazza Navona o le varie corporazioni più o meno giustamente agitate per i tagli, perdendo l’imprinting riformista che Veltroni gli aveva dato al Lingotto. La manifestazione di sabato scorso è stato un segno tanto più positivo di vitalità perché l’eloquenza richiesta da un grande evento popolare si è sposata con un indirizzo politico pienamente in linea con quello proposto a Torino. Alcuni si aspettavano una Piazza Navona extra-large ed invece hanno assistito ad un evento che potrebbe essere ricordato come l’epifania di un partito riformista di massa.
Rimane naturalmente da dimostrare, come nota giustamente Franchi, che l’impresa sia credibile, che in Italia lo si possa costruire davvero un partito riformista di massa, a cominciare dalla definizione di una agenda non schiacciata sull’oggi, capace di dare speranze nutrite di realismo. Aggiungo, capace di dare alle paure dei nostri tempi risposte diverse rispetto alle antiche, rispettabili ricette rispolverate con tanta fortuna da Giulio Tremonti (autorità, ordine, culto delle piccole patrie, protezionismo e aiuti di stato). D’altro canto un grande partito nazionale, non settario, riformista, serve alla società e alla democrazia italiane, non solo al centrosinistra, proprio per questo. Se è in grado di proporre una visione costruttiva del nostro essere, insieme, come Paese, nel mondo globalizzato, per quando quella che ora prevale apparirà inadeguata.
Un partito che dica, ad esempio, come aveva cominciato a fare Romano Prodi, che il nostro nemico non è la Cina, non sono le economie povere che lavorano e lavorando si emancipano. Perché mentre competono con le nostre produzioni labor intensive generano una enorme di domanda di beni e servizi più evoluti. Tanto meglio se li aiutiamo a diventare democratici. Semmai, come abbiamo visto, i nostri nemici sono i ricchi che si sono arricchiti in misure impensabili vendendo illusioni finanziarie fabbricate nel vuoto della deregulation post-reaganiana. Un partito che segnali come il capitalismo nazionale sorretto dallo stato chiuda le porte agli outsider; che sostenga il lavoro e la crescita dimensionale delle piccole e medie aziende competitive; che invece di associare l’Italia alle economie post-comuniste dell’Europa Centro-Orientale contro le scelte europee in materia ambientale punti sull’innovazione ecologicamente sostenibile; che scommetta, anche attraverso la formazione pubblica di qualità, riformata su basi meritocratiche, sulla possibilità che la classe media torni ad espandersi, sulla eguaglianza delle opportunità e la mobilità sociale; che contro i rigurgiti xenofobi e il culto delle piccole patrie alimenti un patriottismo solidale, e promuova l’integrazione dei nuovi italiani che ci arricchiscono con il loro lavoro.
Sarebbe un bene per la società e la democrazia italiane se il PD fosse in grado di costruire nei prossimi anni, su queste basi, “un nuovo centro”. Non certo nell’accezione delle geometrie politiche da Prima Repubblica, ma nel senso in cui sono riusciti a crearlo Gerard Schroeder nel suo primo mandato, Tony Blair, Bill Clinton e oggi Barack Obama, con la credibilità morale e la forza di persuasione di valori liberal come quelli difesi dalle colonne del New York Times, anche in tempi difficili, dal premio Nobel Paul Krugman.
Dare credibilità ad un progetto del genere costa naturalmente fatica e capacità di leadership. Una singola manifestazione, ben riuscita, può dare coraggio. Ma, anche in questo devo dare ragione a Paolo Franchi, quel tanto o quel poco di entusiasmo che ha ricreato può essere rapidamente spento, come è già capitato dopo altri eventi ugualmente esaltanti, se, ciononostante, i dirigenti del PD dovessero rimanere “avviluppati nelle beghe interne” date in pasto ai giornali negli scorsi sei mesi.