Quei fili che legano Putin ai populisti
Se non una corrispondenza di amorosi sensi, ci sono diversi fili che legano Vladimir Putin e i populisti dei paesi occidentali. Alcuni di questi fili sono scoperti. Consistono in assonanze esplicite, simpatie reciproche e convergenze di interessi. Altri sono invisibili e solo oggetto di congetture.
Il filo più robusto va da Mosca a Washington. Trump non ha mai negato di considerare il leader del Cremlino un potenziale alleato. E sul fatto che Putin abbia tentato di influenzare la campagna elettorale americana sono ormai pochi a nutrire dubbi. Nella sua audizione presso la Commissione della Camera del 20 marzo, il direttore Comey non ha soltanto reso noto che l’FBI sta conducendo una indagine sulle azioni dei servizi russi e sui legami tra uomini di Trump e Putin. A precisa domanda, ha riconosciuto che le spie di Putin hanno avuto un ruolo nell’attacco informatico al server di posta dei democratici e nella successiva diffusione di notizie tese a screditare la Clinton, mentre non esistono indizi di interventi simili orientati a danno del suo antagonista. Lunedì, l’altroieri, Dick Cheney, l’ex Vice-Presidente di George Bush junior, durante l’Economic Times Global Business Summit in India ha detto che «c’è stato un tentativo molto serio da parte di Putin e del suo governo di interferire nel processo democratico» americano, talmente grave da poter essere considerato «un atto di guerra». D’altro canto sono provati i contatti tra l’entourage di Trump e Putin in un momento in cui erano certamente inopportuni se non illeciti. Michael Flynn, il consigliere per la sicurezza nazionale appena nominato da Trump, un uomo di sua stretta fiducia collocato in una posizione strategica della Casa Bianca, sotto tutti i punti di vista, si è dovuto dimettere perché aveva ripetutamente interloquito con Sergey Kislyak, l’ambasciatore russo a Washington, prima e dopo la vittoria di Trump, mentre Obama era ancora in carica, per di più poi mentendo – così ha detto – al Vice Presidente Mike Pence riguardo a queste conversazioni.
Non è un caso se anche i fili che legano Putin ai populisti arrembanti dall’altra parte dell’Atlantico siano sotto analisi. Ad esempio, il Front National di Marine Le Pen ha riconosciuto di aver ottenuto importanti prestiti da una banca Ceco-Russa e da una impresa con base a Cipro di cui è proprietario un ex agente del Kgb. Non ha tenuto nemmeno lei segreta la sua stima per il capo del Cremlino e, cosa mai accaduta prima, a un mese dalle presidenziali, è andata a trovarlo a Mosca. Non è l’unica, in Europa, a tenere un atteggiamento simile. Qualcuno c’è anche in Italia. Ora, al di là dell’eventuale sostegno illecito, da dimostrare, anche la politica a prima vista li unisce.
Per dire: una analisi del Pew Reserach Center ha mostrato che gli elettori dei partiti populisti di destra tendono a giudicare positivamente Putin in maniera molto maggiore di tutti gli altri cittadini europei. Forse perché l’intervento militare russo in Siria, brutale come quello condotto da Putin in Cecenia all’inizio della sua ascesa, ha accresciuto la sua reputazione come alleato necessario nella lotta al terrorismo islamico. Forse perché Putin e i leader populisti hanno idee apparentemente simili riguardo alla riaffermazione della sovranità nazionale e perché entrambi vogliono destabilizzare l’Unione Europea. Forse perché hanno un rapporto ugualmente problematico, fatte le dovute differenze di misura, con i fondamenti della democrazia liberale.
C’è però un aspetto su cui la retorica dei populisti e la pratica di Putin si scontrano. Onestà, trasparenza, lotta all’establishment, azzeramento dei costi e dei redditi che derivano dalla politica. Putin e la nuova nomenklatura russa sembrano l’esatto contrario di quanto i suoi ammiratori predicano in Europa. Le manifestazioni di qualche giorno fa e l’arresto di Alexei Navalny mettono un faro su una enorme contraddizione. Tanto che pure Trump, già in difficoltà su parecchi fronti, ha dovuto prendere un po’ di distanza. Salvini, invece, mantiene il suo stile: rilanciare a spararla grossa, contro «l’ennesimo attacco politico a un paese che è tornato forte e a un leader che è assolutamente e fortunatamente forte … Che se non fossero partiti i russi in Siria ad attaccare l’Isis, se avessimo aspettato Renzi, Gentiloni, la Mogherini, la Merkel, oggi li avremmo in piazza del Duomo a Milano». Qui siamo molto oltre l’ammirazione.
(*) Pubblicato su l’Unità