La sfida delle riforme
Intervento al convegno su Una moderna democrazia europea. L’Italia e la sfida delle riforme istituzionali, organizzato a Roma da ASTRID, Fondazione Italianieuropei, Libertà e Giustizia, Glocus, Quarta Fase, Persona Comunità Democrazia, Officina 2007, Istituto Luigi Sturzo, Fondazione Mezzogiorno Europa, Fondazione Liberal, Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issopo, Socialismo 2000.
Premetto che ci sono molti elementi del documento su cui concordo in pieno. Concordo in ogni caso su molte delle concrete proposte avanzate in materia di revisione costituzionale. Si tratta, d’altro canto, di aspetti su cui l’accordo, almeno a parole, è quasi unanime, su tutti e due i versanti dello spettro politico. Riduzione del numero dei parlamentari, revisione del bicameralismo, statuto dell’opposizione, ecc, ecc. Ci sono dettagli di cui sarebbe utile discutere, a tempo debito. Ma è ormai acquisito, e personalmente lo considero positivo, che si possa utilmente partire, come base di lavoro, dalla proposta licenziata dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera sul finire della scorsa legislatura. Quanto al sistema elettorale europeo, quello che si dice nel documento – non credo di rivelare un segreto d’ufficio – rispecchia nella sostanza i contenuti del progetto che verrà discusso domani dalla Direzione Nazionale del PD e che, nei suoi elementi essenziali era stato elaborato ancora prima che si tenesse il seminario preparatorio all’incontro di oggi.
Siccome ho poco tempo mi devo concentrare, senza troppe sfumature, sugli aspetti che condivido meno. Si tratta di aspetti che in parte riguardano l’impianto del documento, in parte riguardano l’uso di alcune categorie giuridiche, in parte riguardano le concrete proposte fatte a riguardo dei sistemi elettorali regionali e nazionale.
Vari passaggi del documento, pur nel formale ossequio al bipolarismo, mi paiono tesi a screditare uno ad uno gli elementi che potrebbero sorreggerlo, quanto meno in un ambiente politico e sociale come quello italiano. Si tratta di un cambiamento di orizzonte abbastanza radicale rispetto a visioni che fino a qualche anno fa apparivano consolidate, non solo nel centrosinistra.
Prendo rapidamente alcuni estratti del documento per d’aree l’idea.
“La forma di governo parlamentare è incompatibile con meccanismi di legittimazione elettiva autonoma del capo dell’esecutivo, comunque denominato.”
“Il necessario rafforzamento dei poteri dell’esecutivo deve dunque avvenire rimanendo saldamente nell’ambito della forma di governo parlamentare e dei suoi pilastri, a cominciare dall’elezione senza vincoli di mandato e quindi della piena sovranità del Parlamento nella gestione del rapporto fiduciario coll’esecutivo e nella definizione della maggioranza di governo.” (p. 9).
“Dei sistemi maggioritari, solo quelli uninominali (a uno o due turni) sono compatibili con la forma di governo parlamentare: il sistema maggioritario uninominale infatti, facendo della composizione del Parlamento il risultato di una serie di competizioni distinte a livello di collegio, da un lato garantisce il rapporto tra il territorio e l’eletto (e quindi anche un certo grado di autonomia dell’eletto nei confronti del proprio partito e del Premier), e dall’altro rende la potenziale trasformazione di una minoranza numerica in una maggioranza parlamentare meno lacerante di quanto avverrebbe con il sistema del premio di maggioranza nazionale (che infatti non è previsto in nessun altro Paese democratico, quanto meno per la formazione del Parlamento nazionale).”
Su quest’ultimo specifico punto mi limito incidentalmente a chiosare che il premio di maggioranza ha certamente alcuni difetti ma non quelli di cui qui si parla. Per dirne una, il premio di maggioranza può anche essere collegato a collegi uninominali, come nel sistema delle provinciali (la formula e la dimensione dei collegi non sono caratteristiche necessariamente associate). Anche in Francia e Gran Bretagna l’esito complessivo del voto (in termini di seggi) è determinato da uno spostamento di consensi che dipende dalla valutazione che gli elettori danno dei leader e delle piattaforme programmatiche nazionali (gli elettori “votano per eleggere il governo”). Gli esiti in contro tendenza della competizione in singoli collegi sono rari e tendono a bilanciarsi, quindi sono di solito ininfluenti ai fini dell’esito complessivo, esattamente come con il premio di maggioranza. Semmai si dovrebbe dire che i sistemi basati sul collegio uninominale rischiano di non attribuire la maggioranza parlamentare al partito che ha più voti ma di darla al secondo. Un paradosso che non si può verificare con il premio nazionale di maggioranza.
“Serve una nuova legge elettorale che sia in grado di rafforzare la rappresentatività e la legittimazione delle istituzioni e di favorire l’affermazione di una moderna democrazia dell’alternanza di tipo europeo, fondata sulla competizione virtuosa tra i partiti per la soluzione dei problemi del paese più che sulla contrapposizione ideologica di schieramenti precostituiti.” Va benissimo, a meno che non si voglia semplicemente dire, come si potrebbe desumere sottraendo a questa stessa frase tutti gli aggettivi: una democrazia fondata sulla competizione tra i partiti piuttosto che sulla competizione tra schieramenti alternativi.
Quindi, il documento è: a) contrario all’investitura diretta del premier; b) è contrario al premio di maggioranza; c) è contrario a porre vincoli di alcun genere alla manovra parlamentare nel corso della legislatura; d) prende in considerazione l’ipotesi di un sistema maggioritario basato su collegi uninominali ma poi lo abbandona rapidamente con l’argomento che non avrebbe possibilità d’essere approvato in questa legislatura a vantaggio di un sistema elettorale (su cui il consenso in sede parlamentare non è meno risicato) che consente ai partiti di presentarsi ognuno per conto proprio, con il proprio programma, tenendosi le mani libere per il dopo.
Ora, per dare un’idea del cambiamento di orizzonte, basta pensare al largo consenso che ottenevano proposizioni di tutt’altro segno nella seconda metà degli anni novanta. Basta rileggere poche righe di un intervento impegnativo e, credo, largamente meditato, svolto nella seduta del 14 maggio 1997 dall’allora presidente della Commissione bicamerale per le Riforme Costituzionali. Sono tratte da un intervento in cui viene proposta una efficace sintesi di una lunga discussione. Non devo ricordare ai presenti che della Commissione facevano parte autorevoli giuristi.
“Il mio giudizio [dice l’onorevole D’Alema] è che le leggi elettorali che favoriscono il formarsi di maggioranze omogenee sono, in una realtà multipartitica come la nostra, leggi a doppio turno.” […] “È del tutto evidente […] che possono esservi diverse forme di doppio turno e mi pare che l’attenzione vada, da una parte, verso la forma più consolidata, più sperimentata di doppio turno uninominale nel collegio e, dall’altra, verso un doppio turno che nel ballottaggio ponga all’attenzione di tutti i cittadini italiani i due candidati premier e le due coalizioni che li sostengono. Il primo è un sistema naturaliter maggioritario – l’elemento maggioritario è implicito nel meccanismo uninominale a doppio turno – salvo la previsione di un recupero proporzionale, secondo un principio che mi pare largamente condiviso. Il secondo è un sistema in cui l’elemento maggioritario in tutto, o almeno in parte, è legato ad un meccanismo premiale che si accompagnerebbe alla scelta prevalente da parte dei cittadini di una certa coalizione e di un certo premier, o di un certo premier e di una certa coalizione: l’ordine delle priorità è affidato alle propensioni di ciascuno.”
“Il problema è che i cittadini vogliono decidere chi governa. Nel modello francese questo avviene in una forma abbastanza indiretta per la verità. Nella forma del governo del primo ministro è chiaro che questo deve avvenire in modo limpido. […] Il governo del primo ministro non è una cosa nuova se non contiene un meccanismo libero di scelta popolare del premier e se non troviamo una soluzione chiara che consenta di evitare il rischio del trasformismo. […] Credo che difendere il patto che si forma di fronte agli elettori, i quali scelgono insieme un premier e una maggioranza, non è un fatto autoritario ma è una garanzia democratica, che le istituzioni devono assicurare attraverso un meccanismo sanzionatorio del ribaltone.” (Seduta del 4 giugno 1997).
Bene, quello che vorrei dire è molto semplice e tutt’altro che polemico. Negli anni seguenti abbiamo dovuto prendere atto che le coalizioni costituite forzosamente, incentivate dal premio di maggioranza, non si sono rivelate sempre efficienti. Che dobbiamo cambiare qualcosa nell’impianto.
Qualcuno dice, ad alta voce: la seconda repubblica, la dinamica bipolare, la scelta da parte degli elettori, di fatto o diritto, del leader del governo e della maggioranza, non ci piacciono. Non ci convincono più. Non ci convengono. Vogliamo tornare alla politica di coalizione che si svolge liberamente nelle aule parlamentari dopo il voto. Benissimo. Credo però, che sarebbe preferibile non sostenere questo cambiamento di strategia, o di tattica, con argomenti pseudo-giuridici. Dichiarando magari antidemocratico quello che pochi anni prima era considerato il massimo della democrazia. Come minimo perché, appunto, si rischia di entrare in contraddizione con se stessi.
Il D’Alema del 1997 diceva varie cose condivisibili e ne diceva, credo consapevolmente, anche se non in maniera esplicita, nascosta dall’enfasi sul doppio turno, una giustissima riguardo ai sistemi elettorali. I sistemi elettorali che, in una realtà politica come quella italiana possono sostenere stabilmente la dinamica bipolare, sono o sistemi che attribuiscono un “premio” identificato esplicitamente dalle legge elettorale a chi prende più voti, oppure che attribuiscono un premio implicito al partito o alla coalizione maggiori, attraverso le modalità tecniche di conversione dei voti in seggi, attraverso il numero dei seggi che si assegnano in ciascun collegio e attraverso la formula elettorale.
Personalmente, continuo a ritenere che per sostenere la dinamica bipolare sia essenziale uno di questi meccanismi. Concordo con il D’Alema del 1997 che siano preferibili i meccanismi “impliciti” del doppio turno di collegio, rispetto a quelli “espliciti” del premio di maggioranza, anche per la cattiva esperienza che ne abbiamo avuto negli ultimi anni. Ora è chiaro che i meccanismi impliciti sono massimamente presenti in sistemi elettorali come quello britannico e francese, sono assai contenuti nel sistema spagnolo e nell’ibrido ispano-tedesco proposto dal Partito democratico sul finire della scorsa legislatura. Sono del tutto assenti, o quasi, nel sistema tedesco. Si possono mettere su un continuum. Perché scegliere l’ultimo?
Veniamo quindi alle ricadute operative dei documento di cui discutiamo oggi. Coerentemente con l’impianto, si propone l’abolizione dell’elezione diretta dei Presidenti di regione e l’eliminazione, nei sistemi elettorali regionali, del premio di maggioranza. Mi permetto di dubitare che gli elettori pugliesi, campani, calabresi, o del Lazio, darebbero il loro consenso, come è già avvenuto in Friuli Venezia Giulia qualche anno fa, se fossero posti di fronte a questa ipotesi. D’altro canto dubito, a dire il vero, che il rendimento della forma di governo regionale sarebbe maggiore se in quelle regioni si riaprisse un logorante negoziato, per tutta la legislatura, tra gruppi e singoli consiglieri, tutti in condizione di esercitare un potere di veto minacciando cambi di alleanze o crisi di giunta. Lo abbiamo già visto in passato e non ci sono ragioni per ritenere che oggi andrebbe meglio. Ma è chiaro che su tutti e due gli aspetti che ho richiamato: la disponibilità degli elettori e il miglior rendimento del sistema, si possono legittimamente avere impressioni diverse.
Così come si possono avere impressioni diverse circa la possibilità che il sistema elettorale tedesco, cioè di un sistema perfettamente proporzionale per i partiti sopra soglia, porti a mantenere il bipolarismo e garantisca la governabilità. Ho seri dubbi che questo sia vero già oggi anche in Germania. Ma se guardiamo alla realtà italiana il sistema tedesco non potrebbe che ampliare le opportunità e le convenienze a coltivare nicchie elettorali circoscritte. Per ragioni di tempo devo essere sbrigativo. Qualunque imprenditore politico ritenga di avere chance di poter coltivare un segmento dell’elettorato sopra-soglia, di aver un potenziale superiore al 5%, avrebbe un interesse ad aprire una propria ditta, piuttosto che a lavorare in una ditta più grande. Quelli che oggi si trovano stretti in imprese di cui sono solo comprimari, non avrebbero più disincentivi a mettersi in proprio.
Siccome ho poco tempo mi devo concentrare, senza troppe sfumature, sugli aspetti che condivido meno. Si tratta di aspetti che in parte riguardano l’impianto del documento, in parte riguardano l’uso di alcune categorie giuridiche, in parte riguardano le concrete proposte fatte a riguardo dei sistemi elettorali regionali e nazionale.
Vari passaggi del documento, pur nel formale ossequio al bipolarismo, mi paiono tesi a screditare uno ad uno gli elementi che potrebbero sorreggerlo, quanto meno in un ambiente politico e sociale come quello italiano. Si tratta di un cambiamento di orizzonte abbastanza radicale rispetto a visioni che fino a qualche anno fa apparivano consolidate, non solo nel centrosinistra.
Prendo rapidamente alcuni estratti del documento per d’aree l’idea.
“La forma di governo parlamentare è incompatibile con meccanismi di legittimazione elettiva autonoma del capo dell’esecutivo, comunque denominato.”
“Il necessario rafforzamento dei poteri dell’esecutivo deve dunque avvenire rimanendo saldamente nell’ambito della forma di governo parlamentare e dei suoi pilastri, a cominciare dall’elezione senza vincoli di mandato e quindi della piena sovranità del Parlamento nella gestione del rapporto fiduciario coll’esecutivo e nella definizione della maggioranza di governo.” (p. 9).
“Dei sistemi maggioritari, solo quelli uninominali (a uno o due turni) sono compatibili con la forma di governo parlamentare: il sistema maggioritario uninominale infatti, facendo della composizione del Parlamento il risultato di una serie di competizioni distinte a livello di collegio, da un lato garantisce il rapporto tra il territorio e l’eletto (e quindi anche un certo grado di autonomia dell’eletto nei confronti del proprio partito e del Premier), e dall’altro rende la potenziale trasformazione di una minoranza numerica in una maggioranza parlamentare meno lacerante di quanto avverrebbe con il sistema del premio di maggioranza nazionale (che infatti non è previsto in nessun altro Paese democratico, quanto meno per la formazione del Parlamento nazionale).”
Su quest’ultimo specifico punto mi limito incidentalmente a chiosare che il premio di maggioranza ha certamente alcuni difetti ma non quelli di cui qui si parla. Per dirne una, il premio di maggioranza può anche essere collegato a collegi uninominali, come nel sistema delle provinciali (la formula e la dimensione dei collegi non sono caratteristiche necessariamente associate). Anche in Francia e Gran Bretagna l’esito complessivo del voto (in termini di seggi) è determinato da uno spostamento di consensi che dipende dalla valutazione che gli elettori danno dei leader e delle piattaforme programmatiche nazionali (gli elettori “votano per eleggere il governo”). Gli esiti in contro tendenza della competizione in singoli collegi sono rari e tendono a bilanciarsi, quindi sono di solito ininfluenti ai fini dell’esito complessivo, esattamente come con il premio di maggioranza. Semmai si dovrebbe dire che i sistemi basati sul collegio uninominale rischiano di non attribuire la maggioranza parlamentare al partito che ha più voti ma di darla al secondo. Un paradosso che non si può verificare con il premio nazionale di maggioranza.
“Serve una nuova legge elettorale che sia in grado di rafforzare la rappresentatività e la legittimazione delle istituzioni e di favorire l’affermazione di una moderna democrazia dell’alternanza di tipo europeo, fondata sulla competizione virtuosa tra i partiti per la soluzione dei problemi del paese più che sulla contrapposizione ideologica di schieramenti precostituiti.” Va benissimo, a meno che non si voglia semplicemente dire, come si potrebbe desumere sottraendo a questa stessa frase tutti gli aggettivi: una democrazia fondata sulla competizione tra i partiti piuttosto che sulla competizione tra schieramenti alternativi.
Quindi, il documento è: a) contrario all’investitura diretta del premier; b) è contrario al premio di maggioranza; c) è contrario a porre vincoli di alcun genere alla manovra parlamentare nel corso della legislatura; d) prende in considerazione l’ipotesi di un sistema maggioritario basato su collegi uninominali ma poi lo abbandona rapidamente con l’argomento che non avrebbe possibilità d’essere approvato in questa legislatura a vantaggio di un sistema elettorale (su cui il consenso in sede parlamentare non è meno risicato) che consente ai partiti di presentarsi ognuno per conto proprio, con il proprio programma, tenendosi le mani libere per il dopo.
Ora, per dare un’idea del cambiamento di orizzonte, basta pensare al largo consenso che ottenevano proposizioni di tutt’altro segno nella seconda metà degli anni novanta. Basta rileggere poche righe di un intervento impegnativo e, credo, largamente meditato, svolto nella seduta del 14 maggio 1997 dall’allora presidente della Commissione bicamerale per le Riforme Costituzionali. Sono tratte da un intervento in cui viene proposta una efficace sintesi di una lunga discussione. Non devo ricordare ai presenti che della Commissione facevano parte autorevoli giuristi.
“Il mio giudizio [dice l’onorevole D’Alema] è che le leggi elettorali che favoriscono il formarsi di maggioranze omogenee sono, in una realtà multipartitica come la nostra, leggi a doppio turno.” […] “È del tutto evidente […] che possono esservi diverse forme di doppio turno e mi pare che l’attenzione vada, da una parte, verso la forma più consolidata, più sperimentata di doppio turno uninominale nel collegio e, dall’altra, verso un doppio turno che nel ballottaggio ponga all’attenzione di tutti i cittadini italiani i due candidati premier e le due coalizioni che li sostengono. Il primo è un sistema naturaliter maggioritario – l’elemento maggioritario è implicito nel meccanismo uninominale a doppio turno – salvo la previsione di un recupero proporzionale, secondo un principio che mi pare largamente condiviso. Il secondo è un sistema in cui l’elemento maggioritario in tutto, o almeno in parte, è legato ad un meccanismo premiale che si accompagnerebbe alla scelta prevalente da parte dei cittadini di una certa coalizione e di un certo premier, o di un certo premier e di una certa coalizione: l’ordine delle priorità è affidato alle propensioni di ciascuno.”
“Il problema è che i cittadini vogliono decidere chi governa. Nel modello francese questo avviene in una forma abbastanza indiretta per la verità. Nella forma del governo del primo ministro è chiaro che questo deve avvenire in modo limpido. […] Il governo del primo ministro non è una cosa nuova se non contiene un meccanismo libero di scelta popolare del premier e se non troviamo una soluzione chiara che consenta di evitare il rischio del trasformismo. […] Credo che difendere il patto che si forma di fronte agli elettori, i quali scelgono insieme un premier e una maggioranza, non è un fatto autoritario ma è una garanzia democratica, che le istituzioni devono assicurare attraverso un meccanismo sanzionatorio del ribaltone.” (Seduta del 4 giugno 1997).
Bene, quello che vorrei dire è molto semplice e tutt’altro che polemico. Negli anni seguenti abbiamo dovuto prendere atto che le coalizioni costituite forzosamente, incentivate dal premio di maggioranza, non si sono rivelate sempre efficienti. Che dobbiamo cambiare qualcosa nell’impianto.
Qualcuno dice, ad alta voce: la seconda repubblica, la dinamica bipolare, la scelta da parte degli elettori, di fatto o diritto, del leader del governo e della maggioranza, non ci piacciono. Non ci convincono più. Non ci convengono. Vogliamo tornare alla politica di coalizione che si svolge liberamente nelle aule parlamentari dopo il voto. Benissimo. Credo però, che sarebbe preferibile non sostenere questo cambiamento di strategia, o di tattica, con argomenti pseudo-giuridici. Dichiarando magari antidemocratico quello che pochi anni prima era considerato il massimo della democrazia. Come minimo perché, appunto, si rischia di entrare in contraddizione con se stessi.
Il D’Alema del 1997 diceva varie cose condivisibili e ne diceva, credo consapevolmente, anche se non in maniera esplicita, nascosta dall’enfasi sul doppio turno, una giustissima riguardo ai sistemi elettorali. I sistemi elettorali che, in una realtà politica come quella italiana possono sostenere stabilmente la dinamica bipolare, sono o sistemi che attribuiscono un “premio” identificato esplicitamente dalle legge elettorale a chi prende più voti, oppure che attribuiscono un premio implicito al partito o alla coalizione maggiori, attraverso le modalità tecniche di conversione dei voti in seggi, attraverso il numero dei seggi che si assegnano in ciascun collegio e attraverso la formula elettorale.
Personalmente, continuo a ritenere che per sostenere la dinamica bipolare sia essenziale uno di questi meccanismi. Concordo con il D’Alema del 1997 che siano preferibili i meccanismi “impliciti” del doppio turno di collegio, rispetto a quelli “espliciti” del premio di maggioranza, anche per la cattiva esperienza che ne abbiamo avuto negli ultimi anni. Ora è chiaro che i meccanismi impliciti sono massimamente presenti in sistemi elettorali come quello britannico e francese, sono assai contenuti nel sistema spagnolo e nell’ibrido ispano-tedesco proposto dal Partito democratico sul finire della scorsa legislatura. Sono del tutto assenti, o quasi, nel sistema tedesco. Si possono mettere su un continuum. Perché scegliere l’ultimo?
Veniamo quindi alle ricadute operative dei documento di cui discutiamo oggi. Coerentemente con l’impianto, si propone l’abolizione dell’elezione diretta dei Presidenti di regione e l’eliminazione, nei sistemi elettorali regionali, del premio di maggioranza. Mi permetto di dubitare che gli elettori pugliesi, campani, calabresi, o del Lazio, darebbero il loro consenso, come è già avvenuto in Friuli Venezia Giulia qualche anno fa, se fossero posti di fronte a questa ipotesi. D’altro canto dubito, a dire il vero, che il rendimento della forma di governo regionale sarebbe maggiore se in quelle regioni si riaprisse un logorante negoziato, per tutta la legislatura, tra gruppi e singoli consiglieri, tutti in condizione di esercitare un potere di veto minacciando cambi di alleanze o crisi di giunta. Lo abbiamo già visto in passato e non ci sono ragioni per ritenere che oggi andrebbe meglio. Ma è chiaro che su tutti e due gli aspetti che ho richiamato: la disponibilità degli elettori e il miglior rendimento del sistema, si possono legittimamente avere impressioni diverse.
Così come si possono avere impressioni diverse circa la possibilità che il sistema elettorale tedesco, cioè di un sistema perfettamente proporzionale per i partiti sopra soglia, porti a mantenere il bipolarismo e garantisca la governabilità. Ho seri dubbi che questo sia vero già oggi anche in Germania. Ma se guardiamo alla realtà italiana il sistema tedesco non potrebbe che ampliare le opportunità e le convenienze a coltivare nicchie elettorali circoscritte. Per ragioni di tempo devo essere sbrigativo. Qualunque imprenditore politico ritenga di avere chance di poter coltivare un segmento dell’elettorato sopra-soglia, di aver un potenziale superiore al 5%, avrebbe un interesse ad aprire una propria ditta, piuttosto che a lavorare in una ditta più grande. Quelli che oggi si trovano stretti in imprese di cui sono solo comprimari, non avrebbero più disincentivi a mettersi in proprio.
Il quesito, che pongo nella forma dubitativa che è opportuno esprimere in un seminario accademico o semi-accademico come questo, è semplice. Come si reggono i governi, in Italia, il giorno dopo aver re-introdotto un sistema proporzionale, seppure con soglia di sbarramento? Ancora più nel dettaglio, di quali pezzi si potrebbe comporre una maggioranza di centrosinistra? A meno che non si verifichino straordinari riallineamenti nell’elettorato, che però la dinamica proporzionale tende a scoraggiare, temo che dovremmo mettere insieme un partito cosiddetto di centro, un partito espressione dei “girotondi”, probabilmente un PD più piccolo di quello attuale, se non a sua volta diviso, forse un partito della sinistra radicale, e non è detto che i numeri parlamentari basterebbero, quindi forse dovremmo corteggiare anche la Lega. Può funzionare? Credo sia più facile mettere d’accordo quelle forze sul sistema tedesco che tenerle insieme per governare. Credo che, alla fine dei conti, al netto delle perplessità sull’impianto che c’è dietro, sia a questo banale interrogativo che dovranno rispondere i sostenitori del sistema tedesco nelle sedi politiche ed istituzionali nelle quali il dibattito si svolgerà, a tempo debito.
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