Un partito da rifondare
In un paese spaccato in tre, la sinistra paga pesantemente la tendenza ciclica dell’elettorato a votare contro chi ha governato, le sue divisioni e il fallimento della leadership renziana. Potrebbe vincere in Lazio grazie alla reputazione di Zingaretti, ai limiti dei candidati alternativi e all’ampiezza della coalizione. Per il resto, rimane confinata in qualche enclave di quella che fu la zona rossa. Pd, Bonino, centristi, LeU prendono messi insieme meno voti dei 5 Stelle. I presidenti delle due camere, Bersani e D’Alema, prendono meno voti della Meloni. Renzi, che all’inizio era apparso attrattivo è diventato respingente. Anche grazie al suo temperamento, avrebbe dovuto contrastare l’antipolitica e ha finito invece per favorirla. Nel frattempo, l’infrastruttura del partito ha continuato a deteriorarsi. Al Sud ha raccattato ceto politico proveniente dal centrodestra scommettendo che, come in un passato remoto, avrebbe trasportato consensi, mentre ha spiazzato anche gli elettori più devoti. Nella zona rossa ha continuato a confidare sulla rendita dell’elettorato anziano, mentre la mistica dell’organizzazione ereditata dal Pci-Pds-Ds si è trasformata nell’autodifesa di un ceto politico per il quale è sufficiente galleggiare da un congresso all’altro, cambiando casacca ad ogni stagione. Le buone riforme prodotte nel corso della legislatura sono passate in secondo piano, in una Italia che ribolle per l’economia che non riparte, al Sud, e per la fobia anti-immigrati, soprattutto al Nord. Ce n’è abbastanza per chiedersi se il progetto del Partito Democratico stia ancora in piedi o se non debba essere profondamente riconcepito.
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(*) Pubblicato su Quotidiano Nazionale (Resto del Carlino, Nazione, Giorno). Su carta e online