Astuzia tattica e stupide regole
Gazzetta del Mezzogiorno (22/01/2010) | Adottando il metodo delle primarie il PD ha deciso di trasferire dagli organismi dirigenti agli elettori la sovranità sulla scelta delle candidature alle principali cariche apicali di governo (sindaci, presidenti di provincia e di regione). Non è un dettaglio statutario. È una impegnativa e fondamentale scelta politica, basata su una specifica visione della partecipazione e di alcuni vizi del professionismo politico, del bipolarismo italiano e, in questo quadro, delle convenienze di lungo termine di un partito come il PD che si propone come baricentro riformista della coalizione di centrosinistra. Le regole dello statuto del PD non sono un esercizio di formalismo giuridico disancorato dalla realtà. Sono solo un riflesso di quella visione.
Per evitare il marasma degli ultimi mesi sarebbe bastato che la dirigenza del PD, confermando quanto aveva ripetutamente giurato nel corso della fase congressuale, avesse subito detto due cose. Uno: l'obiettivo del partito democratico è ampliare la coalizione di centrosinistra; tutti i possibili partner sono ben accetti se condividono un chiaro programma comune e si impegnano a contenere la frammentazione. Due: salvo casi eccezionali, nella coalizione di centrosinistra i candidati alle maggiori cariche di governo si scelgono con le primarie; chi vuole farsi avanti è benvenuto, purché non pretenda al tempo stesso d'essere un fuoriclasse e non sentirsi pronto per le semifinali.
Una importante declinazione della logica delle primarie è che non ci sono ragioni di lealtà politica né vincoli statutari che impongano ad un iscritto o ad un dirigente del PD di sostenere “uno dei loro”. Gli elettori del centrosinistra devono scegliere, mescolandosi, il candidato migliore per la guida della coalizione.
Ovviamente, ciascun dirigente del PD ha tutto il diritto/dovere di dire per chi voterà e fare campagna. Ma non c’è decisione di un organismo interno che possa vincolare altri dirigenti o iscritti a fare altrettanto. Basta del resto un semplice esempio per dimostrare che questa pretesa è infondata. Se nel Lazio si fossero tenute le primarie, come sarebbe stato assai auspicabile, anche in presenza di un candidato proveniente dalle fila del PD, tanti iscritti e dirigenti democratici, incluso il segretario Bersani, avrebbero con tutta probabilità, legittimamente, sostenuto Emma Bonino. Infine, quali conclusioni si dovrebbero trarre sulla rappresentatività del gruppo dirigente pugliese qualora il loro “candidato ufficiale” dovesse essere palesemente sconfessato dagli elettori?