Burqa e niqab
Nel febbraio del 2010 ho presentato come primo firmatario una proposta di legge (qui il pdf) sottoscritta da altri 14 deputati PD per disciplinare l’uso del velo integrale, cioè di indumenti che coprono il volto come il burqa e il niqab, indossati per ragioni di carattere religioso o etnico-culturale. Ho deciso di intervenire sull’argomento dopo essermi convinto che l’orientamento prevalente – tra deputati della maggioranza ma anche dell’opposizione, Pd compreso – all’interno della Commissione Affari Costituzionali non era condivisibile. Il tema è stato messo nell’agenda parlamentare alla fine del 2009 per iniziativa di deputati del centrodestra, ed in particolare delle On. Binetti (Udc) e Sbai (PdL) oltre che della Lega, con progetti tesi a vietare l’uso del Burqa e del Niqab in qualsiasi luogo pubblico o aperto al pubblico (quindi anche per strada). Il progetto a prima firma Amici e Zaccaria (Pd), pur attentuando le sanzioni previste e attraverso una formulazione involuta, si era già messo sulla stessa linea proibizionista. A prima vista potrebbe sembrare una posizione ragionevole, ma entra in conflitto con principi fondamentali di libertà individuale oltre ad essere una misura controproducente rispetto ad alcuni degli obiettivi che chi la propone dichiara di voler perseguire.
Non è un caso se la proibizione assoluta del velo integrale non sia stata introdotta nemmeno negli Usa dopo l’11 settembre durante la presidenza Bush ai tempi della “Guerra al terrore”. Ai legislatori americani non è venuto in mente, nemmeno in quel contesto e con una maggioranza politica repubblicana, che la difesa dei principi occidentali passasse attraverso una misura del genere. Lo stesso si può dire di tutti i paesi in cui è radicata una solida cultura liberale, a cominciare dalla Gran Bretagna. Da ultimo in Svizzera, nell’autunno 2010, la Commissione federale per le questioni femminili ha valutato “inopportuna l’introduzione di un divieto penale del velo integrale nei luoghi pubblici” dal momento che, almeno fino a questo momento, non sono stati segnalati in Svizzera “problemi tali da richiedere il ricorso al diritto penale per essere risolti” e che “misure di questo tipo risulterebbero oltre che inutili anche sproporzionate”. Tanto i cattolici solitamente in prima fila a difesa delle posizioni della Chiesa quanto gli atei devoti, fanno finta di non sapere, inoltre, che per varie ragioni (quasi le stesse qui sostenute), i vescovi francesi si sono pronunciati contro la legge proibizionista voluta da Sarkozy e che Bendetto XVI nel recente libro “Luce del mondo” si è detto contrario ad una proibizione generalizzata.
Il divieto esiste in un numero assai piccolo di paesi democratici, non a caso quelli nei quali forze politiche di centrodestra o di destra xenofoba estrema hanno voluto dare un segno della loro durezza verso gli immigrati di religione islamica (Francia, Belgio).
La necessità di una norma di questo tipo è stata giustificata in diversi modi. Quello meno credibile è che la proibizione serva per ragioni di sicurezza. Chiunque capisce che difficilmente il burqa e il niqab verrebbero indossati allo scopo di commettere atti terroristici o altri reati, dato che essi, in un Paese come l’Italia, richiamano una speciale attenzione su chi li indossa. In ogni caso, il ministero dell’Interno, per bocca del sottosegretario Alfredo Mantovano, rispondendo ad una mia interrogazione parlamentare, ha certificato che il numero delle donne residenti in Italia che indossano il velo integrale è limitatissimo e che la loro presenza, a conoscenza delle forze di polizia, non è mai stato motivo di allarme sociale o creato pericoli per l’ordine pubblico.
É stato poi detto che occorre vietare il velo integrale perché è degradante per le donne e viene solitamente loro imposto con pressioni o violenze nell’ambito familiare. Questo è un argomento serissimo. Ma bisogna chiedersi se il divieto del velo sia la modalità più efficace per contrastare il fenomeno che sia assume sottostante. Il divieto rischia infatti semmai di accentuare la segregazione delle donne che fossero vittime di tale violenza. Inoltre, rischia di essere interpretato anche dalle comunità islamiche che oggi promuovono l’abbandono volontario del velo integrale (la stragrande maggioranza in Italia) come una vessazione inutile e discriminatoria, e di alimentare quindi per reazione proprio gli atteggiamenti integralisti che si intendono reprimere.
Sull’argomento si è inoltre già pronunciato il Consiglio di Stato, con riferimento all’applicabilità a chi indossa il velo integrale dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (cosiddetta legge Reale), che vieta l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
La questione si è posta a seguito dell’ordinanza in materia di pubblica sicurezza n. 24 del 2004 del sindaco del comune di Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, la quale ha espressamente incluso tra i «mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» anche «il velo che copre il volto». Tale ordinanza è stata tuttavia censurata dal Consiglio di Stato, sezione VI, decisione n. 3076 del 19 giugno 2008, il quale ha chiarito che, pur in assenza di una previsione esplicita, è possibile far rientrare tra i giustificati motivi che consentono di coprire il volto anche quello religioso o culturale. Nello specifico, il Consiglio di Stato sottolinea che il «velo che copre il volto» non è utilizzato generalmente per evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture.
A mio avviso, se proprio si vuole intervenire con una modifica legislativa all’articolo 5 della “legge Reale”, si deve seguire la linea argomentativa del Consiglio di Stato, prevedendo espressamente tra le motivazioni che giustificano l’uso di indumenti che coprono il volto, la libera scelta di indossarli per ragioni di natura «religiosa o etnico-culturale».
Allo stesso tempo, si deve obbligare la persona che indossa un tale tipo di indumento a mostrare il volto, al fine della momentanea identificazione, ogni volta che ne sia fatta richiesta da un pubblico ufficiale o da un un incaricato di pubblico servizio per motivate e specifiche esigenze di sicurezza pubblica.
Nell’emendamento presentato in Commissione al testo base proposto dalla relatrice On. Sbai, ho chiarito un aspetto che avevo citato soltanto nella relazione di accompagnamento al progetto di legge, prevedendo che l’uso del velo integrale sia vietato “nei luoghi dedicati all’espletamento di un servizio pubblico” (scuole, poste, anagrafe, ecc.). Ho inoltre previsto che per usare il velo integrale in altri luoghi pubblici o aperti al publico la persona interessata debba comunicarlo alla autorità di pubblica sicurezza.