Due domande sul PD
Pierluigi Bersani – rimbrottando bruscamente chi come me prendeva sul serio le sue dichiarazioni passate e dubitava della sua conversione precongressuale – aveva giurato di non essere contrario alle primarie e aveva promesso che con lui alla segreteria si sarebbero fatte, eccome. Aveva anche promesso un partito solido, strutturato, ordinato, federale, radicato nel territorio, più combattivo nei confronti del governo di centrodestra, dotato di un chiaro profilo identitario e di una nitida linea politica. Si era anche detto che la sua leadership non sarebbe stata esercitata all’ombra di un’altra personalità nota e ingombrante. Per quanta buona volontà ci si possa mettere, quello che si è visto dal 25 ottobre ad oggi non attenua ma anzi accresce i dubbi.
Qui mi limito a fare qualche riflessione sul modo in cui sono stati gestiti la selezione delle candidature e i negoziati per la formazione delle alleanze. Sulla scelta di fare o non fare le primarie rinvio a quanto ho scritto in un articolo pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno con riferimento non esclusivo alla competizione Boccia/Vendola. Sui medesimi argomenti segnalo anche un’intervista al Corriere. Qui aggiungo solo poche considerazioni. Non mi pare elegante che a due giorni dal voto il presunto candidato ufficiale del PD in Puglia, Francesco Boccia, decida di rilasciare una intervista a Libero nella quale ripropone una accusa piuttosto pesante (ma anche poco credibile) contro il suo concorrente, secondo la quale quest’ultimo lo avrebbe battuto per mezzo di brogli alle primarie del 2005 (quando lo stesso Boccia aveva il sostegno delle organizzazioni Ds e Margherita, certamente in grado di monitorare quanto accadeva nei seggi, e Vendola non poteva di certo contare sull’appoggio di prepotenti macchine clientelari). Su L’Unità di sabato D’Alema se la prende invece con i giornalisti che danno Vendola in vantaggio accusandoli di non capire cosa succede nella società pugliese. Mai fosse sfiorato dal dubbio che sia lui a non avere capito.
Per stare al vero problema posto all’ordine del giorno dalle regionali, non credo ci si debba chiedere in astratto se provare o no a includere l’Udc nella coalizione di centrosinistra, ma a quali condizioni. La risposta non può essere che “No”, se le condizioni sono: 1) abbandonare le primarie e subire veti sulle candidature; 2) rinnegare il bipolarismo e stare pronti a varare il sistema elettorale tedesco; 3) concedere la leadership politica di fatto e poi forse anche quella formale, sulla base di negoziati di vertice, al segretario di un partito del sei per cento. Autorevoli esponenti del PD danno a vedere di considerare queste condizioni ragionevoli, se non di lavorare attivamente perché possano realizzarsi. A me pare assurdo, sotto ogni punto di vista. Come svendere in cambio di niente l’impegno di una generazione per riformare il sistema politico e costruire il PD. Esponendosi al rischio di far apparire nel breve termine il PD un partito senza rotta, in balia di ciascun alleato (Casini, Bonino), con candidati scelti sulla base di ricatti o intuizioni estemporanee, e la coalizione di centrosinistra un porto di mare.
Sia chiaro. L’Udc, soprattutto su temi come le liberalizzazioni, la riforma del welfare, l’istruzione, l’immigrazione, la sicurezza, esprime spesso posizioni più condivisibili per un democratico di quelle espresse dall’Italia dei Valori o dalla sinistra radicale. Quindi non ci sono ragioni per escludere a priori dal novero delle cose auspicabili una collaborazione. Fino a che l’Udc non sarà pronta a diventare un partner stabile del centrosinistra si possono utilmente sperimentare alleanze elettorali a geometria variabile, purché siano salve la dinamica bipolare e le regole della casa comune. Anche da questo punto di vista la regione Puglia potrebbe essere un laboratorio. Se accettassero il verdetto delle primarie, quale che sia il vincitore.