Le primarie e il maggioritario
Le primarie intese in senso stretto, come metodo per la selezione di candidati a cariche istituzionali elettive, sono notoriamente una invenzione americana, che si è andata istizionalizzando nella forma oggi conosciuta nel corso degli anni settanta. Le motivazioni non furono tanto dissimili da quelle che ci hanno indotto a trapiantarle in Italia: cedere la sovranità sulla scelta delle candidature più importanti ai cittadini, attenuare il peso delle oligarchie e dei gruppi organizzati dentro i partiti, rendere effettiva la contendibilità degli incarichi, far valere un po’ di più la reputazione personale dei candidati e la loro capacità di parlare ad un pubblico vasto di elettori, rispetto alla capacità di intessere una trama di relazioni magari più spessa ma con un nucleo relativamente piccolo di dirigenti, militanti o clienti.
L’esperienza dimostra però che le primarie hanno queste virtù solo a specifiche condizioni: che le si applichi alla scelta di una candidatura per volta; che a convocarle sia una forza politica inclusiva, che si rivolge a una larga parte dell’elettorato; che riguardino una carica pubblica considerata rilevante e meritevole quindi di attenzione anche da parte dell’elettore “medio”; che siano messe in concorrenza persone sulle quali anche l’elettore medio “non militante” e non costantemente informato sulla vita politica può facilmente farsi un’idea.
Solo a queste condizioni, è plausibile che i partecipanti alle primarie siano molti di più, socialmente più eterogenei (e quindi più rappresentativi) di quelli che normalmente frequentano le sezioni di partito o di quelli che possono essere mobilitati da correnti, da altri gruppi organizzati e da reti clientelari. E solo se partecipano in tanti, per scegliere un candidato solo, l’esito può essere al tempo stesso imprevedibile ed espressione dell’opinione prevalente tra chi andrà a votare alle elezioni finali.
Le primarie, insomma, sono uno straordinario meccanismo di partecipazione, se applicate nel contesto di regole maggioritarie. Meglio ancora se riguardano i candidati di grandi fore politiche per importanti cariche apicali di governo. Non a caso le primarie per i sindaci continuano, pur con qualche caduta, ad essere vissute positivamente, mentre le primarie fatte in Toscana per la scelta dei candidati a consigliere regionale si sono dimostrate un clamoroso flop.
Da qui nasce una differenza rilevante tra il progetto di legge Veltroni ed altri presentati nell’attuale legislatura. Dire che si debbano tenere le primarie per i candidati al Parlamento nazionale o Europeo, senza specificare che prima va cambiata la relativa legge elettorale, va incontro ad una aspettativa comprensibilmente molto diffusa, ma nasconde purtroppo un clamoroso inganno.
Salvo invenzioni macchinose e acrobatiche, le “primarie” per la scelta dei candidati al Parlamento sarebbero – con l’attuale legge elettorale – l’esatto equivalente di una battaglia preventiva, su base regionale, per le preferenze. Sarebbe fortissima, con tutta probabilità, la pressione affinché il diritto di voto sia limitato ai soli iscritti. In ogni caso, è assai prevedibile che sarebbero soli pochi militanti o gli elettori mobilitati da reti organizzate a farsi coinvolgere in una simile competizione. Per il Parlamento europeo sarebbe anche peggio, dato che le circoscrizioni sono ancora più grandi. Con l’aggiunta che la battaglia per le preferenze verrebbe condotta due volte. Purtroppo le primarie non possono cambiare la natura di una legge elettorale sbagliata. Rischiano piuttosto di esserne snaturate a loro volta.
Per questo non ci sono scorciatoie. Se vogliamo fare un passo avanti, dopo tanti passi indietro, servono primarie regolate per legge e il ritorno ai collegi uninominali per il Parlamento.